Abstract

L’esperienza a cui farò riferimento guarda al counseling  (ad approccio corporeo -spirituale)  come ad una opportunità di sviluppo, trasversale ai diversi saperi, di abilità relazionali e tecniche dei modi di stare nella relazione con l’altro, a disposizione dei diversi ruoli professionali che agiscono nella relazione con le persone per raggiungere obiettivi evolutivi, laddove la sofferenza sembra aver fermato il tempo, solidificato le relazioni, il rapporto con il mondo, con il proprio mondo interiore, con quello all’esterno di sé. In questa esperienza, counseling è anche l’attività del professional counselor che accompagna la persona che lo richiede in una ricerca volta a riattivare il dialogo con se stessi e con il mondo, ad abitare i limiti della propria esistenza come punti di partenza, coabitandoli: il professional counselor ha consapevolezza che ogni persona legge e interpreta la realtà dal suo filtro identitario. Proverò a raccontare il campo delle equipe multidisciplinari che lavorano con adolescenti che esprimono una sofferenza importante nel proprio stare al mondo così come le vivo nella mia esperienza. Nello specifico come all’interno di queste il counselor si muove e propone nel concreto il suo intervento educativo (inteso coerentemente con un approccio di riferimento, che tiene conto degli insegnamenti della Core Energetica la quale viene definita dal suo fondatore, J. Pierrakos, “una educazione alla realtà interiore”) con bambini e adolescenti che delegano al corpo le loro parole, che costruiscono con il corpo protezione alle parti più delicate di sé.

Keywords

Core-energetica, adolescenza, educazione, spiritualità

 

L’approccio del counseling integrato corporeo-spirituale è  un processo relazionale finalizzato alla scoperta delle risorse uniche che ciascun individuo possiede all’interno del suo programma di apprendimento, e che potrà utilizzare in modo unico per apportare cambiamenti positivi nella propria vita, così da poter sostenere e affrontare momenti di crisi e difficoltà che inevitabilmente la vita porta con sé.

In questo articolo parlerò più specificatamente  in relazione ai bambini e agli adolescenti così detti “difficili” che presentano livelli di sofferenza molto alta e che, nella mia esperienza, risultano  molto sensibili agli aspetti corporei e spirituali e che quindi dimostrano di poter ben beneficiare di percorsi di counseling di questo tipo.

Il counseling, dal mio punto di vista, ha bisogno di costruirsi strumenti propri, facilmente identificabili all’interno di un processo evolutivo, per orientarsi e muoversi in un contesto sociale odierno complesso e difficile. Contesto nel quale diventa necessaria la messa in gioco di nuove competenze e strategie educative e sociali per realmente accogliere e accompagnare le persone nella loro unitarietà.

In particolare bambini e adolescenti sofferenti tendono a voler far combaciare parti della loro storia disgiunte, usano nell’esprimersi parole usate per loro dagli adulti. Essi ci parlano per lo più con il loro corpo, postura, movimento e comportamento: si presentano così immediatamente ai nostri occhi e al mondo.

Vederli davvero è un compito relazionale ed educativo che non prevede proiezioni personali, ma accettazione piena dell’altro per come lui è, adesso, dentro uno spazio di apertura vera, disponibili a stare con quel che c’è, qualunque cosa sia, senza giudizio.

Il corpo indica, secondo le teorie post reichiane a cui faccio riferimento, attraverso il suo inestricabile legame con la struttura caratteriale di ogni persona, buona parte della sua storia. Nel corpo sono presenti i segni concreti di un’esistenza con le sue possibilità di stare al mondo.

La realtà del corpo s’impone per ognuno di noi fin dall’inizio dell’esistenza, nella nostra carne è incisa buona parte della nostra storia. Le caratteristiche fisiche non dipendono unicamente dai cromosomi e dall’ereditarietà familiare, ma anche dal dialogo con l’ambiente in cui si cresce; contesti relazionali diversi, alcuni segnati da eventi improvvisi e/o sconvolgenti, altri dove sono le esperienze di relazioni di piacere, calore, nutrimento a segnare e contribuire a formare corpi diversi.

Il corpo inscrive in sé una traccia della sua storia, si protegge e cresce con una sorta di corazza maturata strada facendo per sopravvivere a quelle che potremmo chiamare le intemperie relazionali della vita (il corrispondente ontogenetico di quei fattori di adattamento sperimentati per difendere e rinforzare quei tratti a cui l’ambiente rispondeva in modo positivo).

Ciò che freudiani e junghiani chiamano fissazione o rimozione i post reichiani lo chiamano blocco, tutti si riferiscono ad una realtà cristallizzata che impedisce il normale pulsare  vitale di espansione e contrazione energetica.

A livello corporeo il  blocco si materializza in forma di tensione muscolare: entrare in contatto con le proprie tensioni  muove le emozioni in esse racchiuse. Nella natura dell’uomo con il termine emotività si intende una delle manifestazioni dell’organismo, cioè del corpo, nella sua natura complessa. Quindi le emozioni, se considerate scariche nervose hanno a che fare con l’equilibrio organico.

Inibire invece le emozioni (e non scaricarle) provoca un patimento, perché il patimento non è altro che la dimensione passiva, trattenuta dell’emozione. Mentre l’espressione dell’emozione è un movimento rivolto all’esterno, il patimento è un movimento rivolto al proprio interno, e poiché non possiamo reggere a lungo una tale sofferenza, creiamo un blocco per non sentirla,  generando così una condizione di risentimento cronico.

E’ stato W. Reich a fondere la fisiologia con la psicologia nella percezione dell’unità psicosomatica della persona e promosse una sintesi scientifica basata sulle proprie teorie. Lui, allievo di Freud rifiutò come unica strada percorribile quella psicoanalitica e per primo ha riconosciuto il rapporto tra inconscio e corpo e introdotto il concetto di energia.

Da parte loro  Lowen e J. Pierrakos, attraverso l’analisi bioenergetica, enunciarono l’elemento di volizione nei disordini psichiatrici e quindi la necessità di impegnare la volontà della persona sofferente nel trattamento, unitamente al corpo, alle emozioni e alla facoltà analitica.

Negli anni ’50 e ’60, attraverso diverse correnti di pensiero maturò il principio che la persona è un’unità cosciente in continua interazione col suo ambiente.

Il corpo soffre ogni violazione del diritto a esistere

Il legame che si struttura tra corpo ed esperienza diventa fondamentale. Se nella storia di un bambino il dolore e la sofferenza reiterata si legano ad esempio al tema del rifiuto, dell’essere rifiutato (quando cioè non viene rispettato il suo diritto di esistere, il più arcaico a partire dall’influenza prenatale), si annida nel corpo un dolore, una ferita primaria non priva di conseguenze, anzi.

Ciò matura una struttura caratteriale durante il periodo di tempo che intercorre tra il concepimento e il primo anno di vita. Tale rifiuto costituisce per il bambino causa di un grave disorientamento per la sua crescita dovuto ad un’indecifrabile varietà di reazioni che ha sentito ostili nei suoi confronti.

Molti possono essere i motivi legati al rifiuto del nascituro, consapevoli o meno, legati a specifiche condizioni emotive della madre al momento del concepimento o durante la gestazione, consapevoli o meno, o ai suoi desideri e pensieri più profondi.

Le prime esperienze di vita, poi, potranno essere di percepita ostilità e pericolo veicolate dagli sguardi o atteggiamenti evitanti, ambivalenti, da distanza fisica ed emotiva, rifiuto, freddezza. Comportamenti che stabiliranno il tipo di attaccamento del bambino e che influiranno sull’equilibrio psichico adulto.

Ben presto il piccolo comincerà a ritenere la sua vita indegna, come se non facesse mai abbastanza per essere amato e apprezzato, sviluppando in seguito una profonda insicurezza e ansia da prestazione. Ancora, potrebbe accadere che  impari troppo presto a bastare a se stesso, negando i suoi bisogni fondamentali e maturando inesperienza nel riconoscerli.

Nelle esperienze future, in cui rivivrà la sua rappresentazione di rifiuto, incontrerà momenti di ansia e panico anche importanti perché le parti rimosse della nostra storia non cessano mai di esistere e si allarmano ogni volta che sentiamo minacciata la nostra immagine.

Il bambino che fa questo tipo di esperienza, che porta con sé, cioè, una ferita da rifiuto, è altamente intelligente e razionale e ha grandi capacità intuitive, cerca di dare un perché a ogni cosa che gli accade e tende a razionalizzare le emozioni, i sentimenti e i profondi messaggi che provengono dal corpo, perché sa di non potersi fidare di un corpo divenuto ormai estraneo. Ormai ha isolato il pensiero dalle sensazioni corporee: una grande difficoltà che emerge è, infatti, l’incapacità di accedere alla comprensione e all’espressione di ciò che si sente nel corpo. Per vincere il terribile senso d’isolamento, per ricevere un po’ di calore, vede spesso la sessualità come l’unico modo per entrare in contatto con gli altri, ma il dato culturale di profonda disapprovazione per i bambini che ricercano il piacere corporeo aumenta in loro la percezione di rifiuto. Quest’ultimo,  e la minaccia che ne deriva, favorisce un corpo che si fa  piccolo già nel ventre materno, che si abitua ad occupare minor  spazio e a muoversi poco, atteggiamenti che poi porterà anche nella vita, attraverso parti del suo corpo esili e/o contratti. Un corpo composto da diverse asimmetrie, non armoniche, quasi in contrasto.

Come agevolare  l’espressione delle proprie possibilità?

Ho fino a qui sommariamente riportato come esempio la struttura corporea derivante dalla difesa della  ferita del rifiuto ma per gli autori di riferimento vi sono almeno altre quattro strutture corporee principali derivanti da altre importanti ferite, come la deprivazione, il controllo, la seduzione, il tradimento sentimentale, che mostrano a loro volta caratteristiche corporee specifiche e precise in relazione alla difesa da esse.

Per poter vedere un bambino e incontrarlo nella sua interezza occorre disporsi alla capacità di gestire una quantità e varietà di strumenti relazionali-educativi di accompagnamento inesauribili,  per agevolarne le condizioni di crescita e di espressione di sé nella pienezza delle sue possibilità. In tale direzione possono essere evidenziati alcuni passaggi relazionali importanti.

Dall’uscire dal cervello all’ascoltare il corpo nella sua interezza

Per accompagnare con il counseling, in territori di altri, occorre non dimenticare che tutti, operatori compresi, siamo strutturati per poterci proteggere da esperienze che il nostro cervello ha registrato come pericolose. A partire dal periodo prenatale, tutti possediamo un funzionamento cerebrale con attive due regioni del cervello (l’antico rettile: che reagisce istintivamente e il più recente neocefalo: sede del pensiero) tra le quali c’è una parte intermedia: il sistema limbico, sede dei sentimenti, poiché produce gli ormoni da stress che sempre accompagnano le forti emozioni.

E’ necessario non dimenticare che tra le due regioni del cervello e il sistema limbico c’è un’interazione interessante: quando si attiva il rettiliano entra sempre in gioco il sistema limbico con il risultato di reazioni emotive che spesso non appaiono ragionevolmente proporzionate alla situazione reale che si sta vivendo nel presente.

Nel momento in cui il neocefalo, il cervello pensante, è parzialmente fuori uso a causa dello stimolo da stress, non si è in grado di pensare, ascoltare, chiedere, ragionare.

Un vero guaio perché, se sia l’operatore, sia il ragazzo si trovano in quello spazio relazionale, nessun intervento  di counseling  può risultare  adeguato o efficace.

Per fare spazio all’evolversi di questa situazione, una possibilità potrebbe essere quella di “uscire dal cervello”, cioè non cercare risposte nel pensiero – poiché è al suo interno che avvengono questi processi – e prestare, invece, attenzione e ascolto all’interezza del corpo.

Percepirsi e ascoltarsi, aiutandosi magari con la respirazione e l’ausilio della tecnica del grounding (“radicamento”: pensiamo alla funzione della messa a terra in un sistema elettrico per evitare il corto circuito), aiuta la presenza nel qui e ora e offre la possibilità di modificare reazioni e risposte altrimenti automatiche, purtroppo obsolete e inappropriate alla situazione reale che si sta vivendo.

Dal contatto con il vero sé all’accettare la propria vulnerabilità

Viviamo all’interno di  un processo creativo di base che tutti ci accomuna, ma che evolve diversamente per ognuno in relazione alle proprie personali caratteristiche e a quelle del contesto. Abbiamo un’immagine di noi stessi protetta da una corazza e una maschera che ci siamo costruiti fin da bambini per stare nel mondo e sopravvivere.

La maschera generalmente è utilizzata per nascondere: mascherare attraverso ruoli e immagini il nostro vero Sé ha l’obiettivo di giustificare,  razionalizzare e dare spiegazioni, per  non metterci a nudo in stato di vulnerabilità, e per incontrare gli altri come ci vogliono.

In realtà, la maschera può essere positiva o negativa. Positiva quando ci fa apparire come “bravi bambini”, in grado,  nel pieno controllo della nostra vita, di occuparci di tutto e di tutti.  Negativa quando ci fa apparire aggressivi dietro provocazione e quindi vittime (“Ti ferisco, se mi ferisci”; “ La mia vita non vale niente” ecc.).  Togliere il velo, penetrare la maschera, conoscerla e riconoscerla, ci permette di andare oltre e di entrare in contatto con il vero sé.

Togliere la maschera e svelarsi costituisce un processo che può essere  molto doloroso per tutti, operatori e ragazzi. Si tratta di un processo educativo, sostenuto dal counseling, finalizzato a far maturare le condizioni per accettare di stare nella vulnerabilità, rinunciando al controllo e alla sicurezza del già noto. Sono spesso le condizioni di crisi – quelle che non sfociano nell’emergenza del 118, nell’aggressività indomabile e nel ricovero – a offrire possibilità di crescita importanti. Esse attivano processi di crescita personale (educativi) utili per imparare a vedere insieme al di là della sofferenza (Lowen), da uno spazio condiviso di esame di realtà (per esempio: “La sofferenza non ti ha ucciso, sei vivo e hai forza da usare: io lo vedo, tu lo hai visto”) in cui esplorare pratiche immaginative di cambiamento, compassionevoli e utili per sé.

Dalla confusione emozionale al non pretendere l’impossibile

Contenere le situazioni in cui un ragazzo aggredisce se stesso o un pari, con un approccio relazionale, non è facile. Se le dinamiche si muovono all’interno di una confusione emozionale non solo del ragazzo ma anche dell’operatore, le spinte nel confronto stimoleranno reazioni diverse di fuga, paura, malessere con esiti rischiosi per entrambi. Ciò che spesso accade, infatti, è che i ragazzini nella confusione “saltino”, dunque pretendano, aggrediscano, incolpando gli altri dei loro agiti.

Esami di realtà verbali in questi momenti non sono sufficienti, né sempre utili, ma “è proprio nella regressione che l’individuo recupera le potenzialità incluse nel Vero Sé” (Winnicott).

Nonostante le criticità che rappresentano, queste sono situazioni in cui è possibile confrontarsi sulla lotta in corso e dove il ragazzino, con l’aiuto del counselor, può verificare e mettere alla prova la realtà, può ascoltare cosa il suo corpo gli sta dicendo rispetto a sé e rispetto a ciò che  sta accadendo, a quel che si può fare per uscire dalla situazione faticosa, a come può arrivare nuovamente a sentirsi meglio e a valutare se continuare a pretendere di realizzare l’impossibile o ottenere, oggi, qualcosa che gli potrà servire, un domani, per la sua vita.

A ciò si arriva non cercando di evitare la crisi, ma anzi andando talvolta a sollecitare  reazioni sincere,  anche quelle a cui diamo  connotazioni culturali negative. E’ mio convincimento comunque che parti di un vero sé dove si annidano anche  rabbia, odio, collera, disprezzo, risentimento, vadano espresse dai ragazzi e viste e riconosciute dagli adulti e nello specifico dagli operatori.

Dal prendere atto delle parti negative alla sofferenza sostenibile

Vedere e accettare queste parti senza condannarle è un passo esperienziale importante per consentirsi di andare oltre la paura ed è soprattutto un modo per  poterle integrare con parti (che non sono separate) dove regnano bellezza, amore, benevolenza e compassione. Andare oltre l’odio vuol dire darsi la possibilità di trovare amore. L’accettazione di quelle parti di sé meno nobili è necessaria perché porta ad una dimensione distruttiva che è opportuno vivere e affrontare con coraggio, per esplorarne il senso e assumersene la responsabilità mettendo  fuori gioco soluzioni più semplici come il giudizio o la negazione.

Attraverso l’utilizzo dello strumento della “provocazione”, evitando di cadere in una relazione simmetrica reattiva, il counselor può accompagnare l’espressione e l’esplorazione di quel contenuto personale che spesso è immaginato come terrificante, con cui fa paura anche solo l’entrare in contatto. Condivisione e accompagnamento nel counseling  permettono di vedere trasformati anche i sentimenti: non è che non si soffre più ma la sofferenza assume la qualità della sostenibilità: si lascia fluire il pianto, la tristezza, il dolore tutto quello che c’è.

Dal depotenziare collera e disprezzo al riconoscersi emozioni positive e potere

Rabbia, odio, collera, disprezzo ecc., se espressi  in spazi sicuri,  si depotenziano e si trasformano in emozioni mosse da un intento positivo,  spontaneamente aperte alla vita. L’energia che si trasforma si caratterizza per unità-espansione, entra in contatto con una dimensione sincera del  sé e  cambia la percezione del mondo esterno. Essere in contatto con questa parte permette di stare nella propria verità, quindi di stare nella scelta e nel potere.

Questa è esperienza sempre presente quando si lavora con il gruppo dei ragazzi di un servizio, dove può accadere che anche uno solo di loro sia molto agitato. Senza nemmeno dover parlare, il suo stato condiziona il clima generale in senso negativo e, finché non gli verrà data l’opportunità di esprimersi (attraverso strategie adeguate che tengano conto della sua fisicità, offrendogli libertà di movimento), finché non gli sarà chiesto cosa sente nel corpo (suggerendogli magari piccole esperienze espressive possibili), o semplicemente gli verrà esplicitato che cosa sta accadendo nel gruppo, l’energia del contesto sarà di paura, di stallo e in quel gruppo sarà difficile lavorare.

Se si riesce, invece, a far esprimere chi è in uno stato di agitazione, questa energia cambia e tutto il gruppo ne beneficia. Diventa, quindi, fondamentale il fatto che il singolo sperimenti come una chiusura possa diventare un’apertura, come l’agitazione  espressa possa realmente trasformarsi in calma orientata anche verso gli altri.

Nella mia esperienza, il counseling integrato corporeo-spirituale, che prende vita nell’incontro e accoglienza nello scambio-colloquio con il bambino/adolescente e nelle attività di gruppo, spesso trova i maggiori ostacoli di fronte alla scelta e alla possibilità di darsi il permesso di sentire quel che c’è, accettarlo ed esprimerlo.

Su quest’aspetto  le questioni  portano o allo stallo progettuale o ad una trasformazione del progetto in processo di crescita utile alla produzione di cambiamenti utili per sé. Alla domanda “Cosa vuoi fare? Cosa senti buono fare per te?” – le risposte sono “Non lo so … non riesco a fare quello che dico L” –  oppure “Per il momento non so cos’è la cosa giusta … Mi ha chiamata mamma…”.

I ragazzi non accettano, non si esprimono ma entrano invece nella resistenza, in una lotta interna che li mantiene nello stallo e nella paura. Quando si parla di un problema, quando lo si “spacchetta” e si giunge a conoscerlo, a comprenderne il senso e si decide insieme una linea di comportamento, questa viene poi spesso disattesa  dai ragazzi che scelgono invece quella che, sistematicamente, li  conduce progettualmente dove non vogliono andare: ad esempio, una comunità terapeutica o un affidamento familiare inopportuno.

Il solo colloquio educativo, le attività terapeutiche di gruppo e tanto altro spesso oggi non risultano efficaci per trasformare la qualità della sofferenza personale in qualche cosa che non necessariamente inibisce il futuro.

Una risposta che arriva dalle teorie post-reichiane, indica che, se non c’è un lavoro parallelo che carichi energeticamente il corpo e lo scarichi più completamente, attraverso una specifica attività motoria, non può aver luogo nessun progresso significativo per il miglioramento della vita della persona. Per contrastare la resistenza al cambiamento e l’attaccamento agli schemi conosciuti, infatti, c’è bisogno di sperimentare e di sentire altro con il proprio corpo.

Del resto, sapere non è sufficiente. Ormai gli stessi ragazzi utilizzano parole che noi chiamiamo amministrative: “Non lo sai che sono un caso difficile? – Sono un’anoressica, sono una border … Mi dai la terapia che ho l’ansia? Mi ha telefonato mia madre, ho voglia di morire…”. Il tutto senza che in queste parole entri una qualche carica emotiva o energetica. Dice bene una bella canzone di Jovanotti: “L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente…”.

Molti ragazzi conoscono bene il come e il perché dei loro problemi, senza essere in grado di cambiare le proprie risposte emotive, e di conseguenza i propri comportamenti, nonostante colloqui ed attività educative, psicoterapie e farmaci. Capita sempre più spesso di vederli ostinati nella pretesa della conduzione di dinamiche relazionali con l’adulto finalizzate alla ricostruzione di esiti negativi per loro noti.

Nelle comunità per minori, in particolare, sembrano richiedere il sentirsi contenuti fisicamente, sembrano spingere gli operatori, attraverso richieste quasi esplicite, ad un contenimento corporeo attraverso l’immobilizzazione e lo schiacciamento. Dal mio punto di vista, questa procedura, anche quando pare legittima, non può portare a progressi progettuali né alla crescita ma al rinforzo delle difese, dei ricoveri e dei feriti, allo stallo e l’istituzionalizzazione.

Un percorso di counseling, invece, è composto da piccoli passi da fare insieme: ci vuole un tempo per imparare a scegliere senza imporre o pretendere, per imparare ad agire con discernimento piuttosto che a re-agire quando scatta il sistema di allarme che ci segnala un pericolo all’interno del nostro sistema cerebrale.

Un lavoro questo che accompagna a far sentire di avere voce e potere.

I bambini e i ragazzi forse assumeranno il potere  quando  matureranno le parole non solo per dire ciò che sanno, ma anche per esprimere ciò che sentono. La relazione è educativa se trova al suo interno azioni coerenti con la realtà interiore delle persone coinvolte (compito del counseling), realtà che dispone di parole proprie per raccontarsi.

Questo processo potrebbe attivarlo l’operatore counselor e, perché ciò sia possibile, deve sentire e sapere in quale spazio della sua mappa della consapevolezza si trova; il che rappresenta buona parte dell’adeguatezza del suo lavoro.

Il counselor non può essere né autoritario, né permissivo ma guidato dall’auto-regolazione, dal rispetto, capace di soffermarsi sul sentimento del pudore.

Agire una relazione di aiuto comporta alta competenza nella gestione della comunicazione e dialogo e molta attenzione. Significa disporsi a un atteggiamento di accoglienza autentica dell’altro leggendo le sue diversità non solo attraverso le parole, ma anche attraverso preziosi gesti  di cura come la tenerezza e la compassione.

Per usare le parole dello psichiatra J. Pierrakos: “Un educatore sa che ciascun individuo possiede doti uniche, e utilizzerà il programma di apprendimento in modo unico […] Non offre né le doti né il disegno…”.

Così il valore più alto dell’educare è rivolto ad un contributo di reciproca ricerca, volto a far emergere le potenzialità e la peculiarità di quella singola e unica storia umana, per promuovere la libertà e il protagonismo di ogni singolo essere.

La scommessa educativa sta, con un concetto rogersiano, nel favorire l’autonomia possibile attraverso un rapporto supportivo, nel quale almeno uno dei protagonisti ha l’intenzione di favorire nell’altro la crescita, lo sviluppo e la maturazione.

Entrare in relazione presuppone un praticantato delle proprie potenzialità e la capacità di apprendere continuamente dall’esperienza.  E’ necessario anche un atto di fiducia, e più specificatamente di fede, nelle possibilità e nelle infinite risorse degli esseri umani anche in condizioni di sofferenza e disagio, solo così sarà possibile avvicinarsi ad un’altra persona e farsi un po’ uguali, empatici, per disporsi  ad accompagnare in ciò che del futuro non si sa: un salto progettuale nel buio, verso un processo di crescita che diventa reciproco.

Confrontarsi con la sofferenza, coglierne l’intensità, saperla decifrare, richiede di aprirsi alle emozioni e all’ascolto di cosa risuona nella nostra interiorità.

Dal momento che la declinazione di ogni sentire ed emozione è atto assolutamente personale, quando incontriamo l’altro ci  ridefiniamo e quindi riceviamo un accrescimento della nostra conoscenza, per differenza, e non per somiglianza.

La spiritualità nel corpo: un quarto istinto

Spesso attraverso l’azione e l’utilizzo del loro corpo i ragazzi cercano il loro senso. Le parole sullo sfondo (alla domanda”Come stai? La risposta “Seduta”; alla concessione ”Hai ragione” la reazione “Mi date sempre ragione, ma qual è il senso se tanto non cambia niente?”), agiscono sulla realtà esterna, sugli spazi, sulle cose.

Gli adolescenti  ci confrontano sul senso della loro vita continuamente, soprattutto con il loro corpo.

Esprimono incredulità per il non senso della morte e profonda tristezza per sé, dichiarano di volere morire ma anche di avere paura. Si fanno del male continuamente, più o meno consapevolmente, e comunque con una dichiarata indifferenza rispetto alle conseguenze negative  di certe azioni (giochi pericolosi, provocazioni per venire alle mani, spostamenti di mobili,  cose pesanti o oggetti pericolosi come specchi, vetri,  ecc.) o attraverso dannose abitudini come fumare.

I bambini, invece, ci raccontano di un senso del vivere raccontato loro da un amico immaginario, oppure a volte ci chiedono di Dio. A  tal proposito mi viene in mente Pamela Chubbuck, psicoterapeuta americana, che dalla nipotina ha ricevuto il meraviglioso segreto di un suo rapporto speciale con Dio, che l’ha poi ispirata a scrivere una bella favola sul senso della vita per i bambini “Welcome to the world”.

Alcuni autori hanno cercato di rispondere al bisogno dei bambini di sentire il senso della sofferenza quando inibisce il futuro. Eric-Emmanuel Schmitt,  nel suo racconto “Oscar e la dama in rosa”,  in poche pagine immaginarie sa parlare del dramma di un bambino di soli 10 anni consapevole che la leucemia  lo sta uccidendo ma impossibilitato a parlarne con qualcuno, perché gli adulti fanno finta di non saperlo.

Anche Elisabeth Kubler Ross, rispondendo anche lei alla richiesta di un bambino sul senso della sua breve vita, scrive, disegna e colora a mano per lui semi di bocca di leone come bambini sparpagliati in ogni dove dal movimento del Vento e dalle particolari caratteristiche e movenze di Ognuno. Ci si muove, certe volte, senza sapere verso dove ma “non vedere più all’orizzonte una barca che si allontana”, scrive Elisabeth, “non significa che non esiste più, significa che non la possiamo più vedere; alcuni fiori vivono pochi giorni e hanno la funzione di annunciare l’arrivo della primavera, tutti l’ammirano; altri vivono a lungo e nessuno quasi ci fa caso come gli anziani nelle panchine [  quando non ci sono più nessuno se ne accorge”.

La relazione educativa sostenuta dal counseling abilita alla ricerca di senso anche nella sofferenza perché lavora con quel che c’è, nel qui ed ora, per la  trasformazione di possibilità future.

C’è un gioco che gli adulti fanno con i piccoli (di cui Lowen ci parla nel suo libro “la depressione e il corpo”): il bambino viene posto in alto su un sostegno adeguato, e poi invitato dall’adulto a saltare tra le sue braccia tese. Viene accolto al volo e tra gridolini di gioia chiede di ripetere ancora. Al principio  il bambino si butta sorretto da un atto di fede, non ha certezze, supera la paura di cadere e tra le braccia, spesso del genitore, libera il suo panico  provando una sensazione di gioia, nutriente conferma che la propria fede è giustificata.

Jung colse con chiarezza l’importanza del nostro istinto spirituale e sono molti  gli autori che raccontano come  negli esseri umani l’istinto della spiritualità sia innato, dicono sia il nostro quarto istinto, accanto a quello di sopravvivenza, di riconoscerci parte di un gruppo (istinto sociale) e di tessere relazioni uniche con i nostri simili (istinto sessuale). E’ un istinto di origine genetica, fisica, ma dalla finalità metafisica (istinto universale). Una naturale ricerca di senso e significato che trascende la dimensione terrena. Arianna Huffington riporta il rifiuto di una dualità fasulla, e promuove l’accettazione di un’interezza che possa corrispondere alla nostra vera natura. Oggi esistono prove scientifiche che illustrano il funzionamento di questo quarto istinto.

Anche tra le persone che considerano la vita spirituale come una suggestione illusoria, va diffondendosi la consapevolezza che gli esseri umani  che hanno sviluppato una sensibilità spirituale sono vissuti con pienezza e hanno tramandato questo tratto ai loro figli rendendoli più forti e presenti (si pensi ai sopravvissuti nei campi di concentramento di cui A. Lowen ci  ricorda).

E’ la tesi sostenuta dal biologo molecolare Dean Hamer in “Il gene di Dio”.

D’altra parte se continuiamo a vivere in una condizione di paura esistenziale, è  probabile che abbiamo perso una visione di appartenenza che ci fa sentire vicini uni agli altri.

Non abbiamo forse ancora incominciato a vivere seguendo il nostro quarto istinto. La paura, in fin dei conti, è una forma di ateismo, un rifiuto emotivo dell’idea che possa esistere qualcosa di più grande di noi, piccoli, temporali e temporanei come siamo. Esorta Herman Hesse nel libro Il mio credo:

«Interroga la tua anima. La tua anima non ti accuserà di esserti interessato poco di politica o di avere lavorato troppo poco, di non avere odiato abbastanza i nemici o di non aver munito a sufficienza i confini. Ma ti accuserà di avere avuto troppo spesso paura, di aver scantonato di fronte alle sue sollecitazioni, di non avere mai avuto tempo per dedicarti a lei – la più giovane ammirevole delle tue creature – per giocare con lei, per ascoltare il suo canto. Ti accuserà di averla spesso venduta per denaro, tradita per qualche vantaggio. Sarai sempre nervoso e tediato se la trascuri; così resterai e così perirai, se non ti rivolgerai a lei con amore e sollecitudine interamente nuovi»

Professional  counselor e gli altri professionisti

Gli operatori trovano facilmente più accettabile la parola fiducia piuttosto che fede, questo perché la parola fiducia non ha un’implicazione religiosa. Religione ha in sé qualcosa a che vedere con i “legami” (re-ligo) tra gli uomini.  Introduce, tuttavia, un fattore mistico che non può essere controllato con mezzi scientifici in quanto comporta una riluttanza comprensibile;  questa riluttanza, però, non dovrebbe scoraggiare gli operatori a individuare il senso e il ruolo che la fede svolge nella vita delle persone. Il rapporto con sé, con l’altro, tra le persone  e l’ambiente appartiene a questo settore.

La fede appartiene a un ordine di esperienza diversa da quello del sapere.

Senza una certa fede che gli sforzi e l’impegno saranno compensati, verrebbe a mancare la motivazione per proiettarsi al di là di se stessi.  “Tanto a che serve?” è il senso d’impotenza con cui i bambini e i ragazzi ci confrontano e il primo passo da cui l’avventura della relazione di aiuto prende forma.

All’interno di una equipe multidisciplinare il contributo del professional counselor è importante nel superamento del senso di impotenza che pervade spesso anche gli operatori nel loro insieme.

La complessità e la quantità dei problemi da affrontare con gli adolescenti, rendono oggi imperativo, dal mio punto di vista, il bisogno di lavorare insieme professionalità differenti. Credo che occorra proprio aver fede nella possibile costruzione di un pensiero e quindi operato condiviso sincero  tra professionisti diversi per la costruzione di servizi congrui ai bisogni complessi che i ragazzi ci portano ogni giorno, bisogni a cui è necessario rispondere, perché anche da ciò dipende il futuro.

Poter rispondere come soggetto collettivo è qualcosa di profondamente diverso e ricco rispetto al contributo possibile per un singolo professionista.

Come? E cosa concretamente fa il counselor, in questa esperienza, per differenza rispetto alle altre professioni:

– Offre ai tavoli di lavoro un linguaggio professionalmente “umano”, per esempio ragiona con e su i ragazzi, bambini e loro famiglie non in termini di utenti, pazienti, clienti etc. ma sceglie la definizione di persone, bambini, ragazzi, tutte le volte che ciò è possibile e la situazione lo consente.

– Il lavoro del counselor subentra nel momento in cui la persona, anche quando per essa vi sia una prescrizione (del Tribunale dei Minori ad esempio), sceglie/chiede  lei, all’interno del suo progetto,  la mediazione/accompagnamento/facilitazione relazionale altra derivante dal counseling (solitamente nelle situazioni di stallo o quando il sistema si è “impallato”), il lavoro è caratterizzato dalla costruzione di un contratto condiviso direttamente con la persona, protetto da riservatezza, ma che sta all’interno del sistema progettuale più ampio in modo esplicito.

Il processo educativo proposto (o imposto dai Servizi) alla persona si inserisce all’interno di un progetto  multidisciplinare (Neuropsichiatria e/o Psichiatria, Servizio Sociale, Tribunale dei Minori o Tribunale Ordinario, Agenzie Educative, Famiglia –naturale e/o affidataria, Scuola, Volontariato, etc.) dove l’obiettivo nel nostro caso  è riabilitativo-psicosociale poiché il disagio ha spesso connotazioni patologiche con diagnosi certificata della persona.

Il counseling è un servizio che si inserisce al bisogno in modo  trasversale alle differenti funzioni (funzione  psicoterapeutica ad esempio che lavora sulla struttura della personalità o le altre funzioni che comunque agiscono per “presa in carico” di una parte specifica del problema, SERT per le dipendenze ad esempio ed in relazione ad una persona del sistema); il counselor ha un compito relativo alla crescita relazionale tra le parti che va oltre il costruire percorsi individuali; coltiva insieme all’individuo per il raggiungimento dei suoi obiettivi nel suo territorio relazionale  per farli crescere. Aiuta e sostiene la costruzione di legami utili al proseguimento del progetto educativo nel suo complesso in un’ottica di accompagnamento alla crescita del sistema.

– Nella mia esperienza, il lavoro del counselor in una equipe multidisciplinare, si equivale per alcuni aspetti a quello dell’educatore professionale in particolare nell’aspetto che “mette gambe” al proprio mestiere e si caratterizza per la possibilità di utilizzo di spazi differenti di accoglienza. Ciò dipende dal bisogno della persona e del suo progetto. Questo nel lavoro di relazione risulta una risorsa professionale che consente una crescita con le persone che guarda anche al loro ambiente di vita (casa, scuola, lavoro, strada etc.) e non solo nello spazio di incontro del counselor  (caldo,  accogliente, sicuro) che comunque esiste come possibilità tra le possibilità e  soprattutto  per la proposta del lavoro corporeo (che necessita di spazi e strumenti appropriati).

Le differenze tra le competenze di professionisti diversi esistono ma i confini comportano spesso sovrapposizioni che però nella mia esperienza risultano superabili e non inficiano le specificità di ognuno. Uno strumento fondamentale per confrontare le esperienze e accrescere la collaborazione sincera tra le parti è costituita dalla formazione continua che l’equipe multidisciplinare si da come metodo e strumento di crescita professionale. Le convergenze formative riconoscibili in tutti gli operatori riguardano l’approccio fenomenologico, cornice entro la quale si esprimono le differenze con cui ci si esprime, l’attenzione al qui ed ora delle persone e alle esperienze di vita concrete, l’empatia come qualcosa che genera l’esistenza dell’io e del tu, l’obiettivo di rendere visibile alle persone la bellezza e le infinite risorse umane anche in stato di difficoltà, il lavoro comune dell’equipe per il raggiungimento degli obiettivi della persona.

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