Abstract

Il counseling filosofico parte dalla consapevolezza che non si può guarire dal dolore, ma si può imparare a conviverci, a sopportarlo meglio ed anche ad utilizzarlo come una risorsa per trasformare se stessi attraverso la cura di sé. In particolare María Zambrano ha operato in questa direzione. Poiché il dolore è refrattario al linguaggio, diventa importante l’uso delle immagini nell’affrontare casi di sofferenza. Si riporta un caso di dolore esistenziale affrontato in sede di consulenza filosofica facendo riferimento a queste considerazioni.

Keywords

Counseling filosofico, dolore, cura di sé.

 

Di fronte alla sofferenza di cui è colma la vita umana si sono poste, fin dai tempi più antichi, molteplici pratiche di cura.

Negli ultimi decenni è comparsa una modalità nuova, ma al contempo antica: quella del counseling filosofico. A differenza di altre forme di terapia, il counseling filosofico non guarda al dolore come a un inconveniente fastidioso dell’esistenza, da scacciare quanto prima dalla nostra vita e da cui si possa guarire con una cura.

Si ritiene invece che il dolore non sia separabile dall’esistenza, ma ne faccia parte integrante, anzi addirittura ne costituisca un fondamento costitutivo: la sofferenza non è solo un evento fisico o psichico, ma è la condizione dell’uomo, in quanto essere limitato e mortale. Pertanto non si può guarire dal dolore, ma si può imparare a conviverci, a sopportarlo meglio ed anche ad utilizzarlo come una risorsa per trasformare se stessi attraverso la cura di sé.

La cura di sé ha un ruolo centrale nel counseling filosofico è in questo contesto che assume importanza primaria il rapporto con l’altro, attraverso il quale si può costruire l’immagine di sé, un’immagine in continua trasformazione che solo l’altro è in grado di rifletterci. E l’immagine, proprio per la sua struttura non argomentativa e non razionale, rappresenta spesso una via più diretta e privilegiata alla conoscenza di sé.

La costruzione dell’immagine di sé, passaggio obbligatorio per prendersi cura di sé, passa attraverso l’immagine che l’altro rimanda e nella quale ci si può rispecchiare. Per questo è fondamentale che l’altro ci faccia da specchio, rimandandoci un’immagine il più possibile vera, autentica. In altre parole, per prendersi cura di sé è indispensabile che ci sia chi si prenda cura del nostro prenderci cura.

In queste pagine cercheremo di mostrare come nel counseling filosofico l’umano patire, che contrassegna la vita di ognuno di noi, e l’immagine, nelle sue svariate forme, divengano risorse preziose in un processo di costruzione del proprio sé.

Uno dei problemi centrali nell’ambito di tutte le pratiche volte a dare un senso al dolore è che esso, nella sua cecità e irrazionalità, è difficilmente comunicabile, soprattutto attraverso modalità linguistiche: il dolore è refrattario al linguaggio. E questo non per carenza della lingua, ma per la natura stessa del dolore, che non ha alcun referente esterno. Per questo il dolore resiste all’oggettivazione ed è difficilmente condivisibile. A volte sono proprio le immagini le più adatte a scalfire questa corazza di incomunicabilità che la persona che soffre spesso si costruisce, a trovare una via di comunicazione più obliqua e indiretta, ma proprio per questo più efficace.

L’esperienza del dolore può arrivare a mettere profondamente in crisi la domanda di senso sulla propria esistenza e il dolore stesso apparire del tutto insensato. Tuttavia, se consideriamo il dolore come una conseguenza naturale dell’essere nel mondo, allora anch’esso può acquistare un senso, anche se, nelle sue forme più acute, impone nuove modalità di relazione con il mondo.

Spesso la filosofia, che pure è nata da una situazione di disagio, non riesce a dare ragioni al dolore, così incarnato e radicato nell’hic et nunc della persona sofferente. In alcuni casi, tuttavia, il dolore è stato considerato non solo come limite, ma anche come risorsa per un percorso di conoscenza e di trasformazione di sé. A questo proposito significativa è la testimonianza di María Zambrano: per la filosofa spagnola la malattia è riconosciuta come un regalo, che consente, attraverso il “dis-nascere”, di costruire la propria rinascita, di “nascere secondo se stessi”.

Sulla base di queste considerazioni presentiamo un’esperienza di counseling filosofico che l’autrice di questo articolo ha effettuato con una persona che vive un profondo disagio.

Illustro solo alcuni momenti degli incontri svolti con questa persona nell’arco di diversi mesi, quelli più direttamente legati agli aspetti che interessano questo lavoro, tralasciandone altri che, se pur significativi nel mio percorso di counseling filosofico, hanno in questa sede rilevanza minore.

Quando ci incontriamo la prima volta, Simonetta si presenta come una donna di bell’aspetto, molto curata nel vestire. E’ sposata e ha un figlio di due anni, Samuele, affetto da un morbo rarissimo. Il suo sguardo è fisso su di me, a volte sembra assente. La malattia del figlio è talmente grave, che da due anni Simonetta ha lasciato il lavoro per dedicarsi a lui.

Queste sono alcune delle cose che mi dice durante il nostro primo incontro:

“Mi sono annullata, esisto solo in funzione di Samuele. La mia vita è troppo sacrificata e mi sento disperata, non ne vengo fuori”. 

“È da anni che non riesco a fare nulla, non riesco a concentrarmi su me stessa”. 

“Non sopporto di non sapere come procederà la vita del mio bambino, se riuscirà almeno a interagire con me, a farsi capire”. 

“A volte sento l’esigenza di scappare o di appendermi via assieme al bucato, sento che non faccio quello che voglio, che non sono più me stessa. Mi sento annullata. E non so dove trovare la forza per andare avanti”. 

“Vorrei fare qualcosa per me e non so cosa, non vorrei fare la vita solo in funzione di mio figlio, e mi sento in colpa, perché lui soffre moltissimo, non dorme, ha crisi epilettiche continue. Mi sembra di non fare mai abbastanza”. 

“La maggior parte delle persone che mi sono vicino non capisce quali sono i miei problemi, non si accorgono di come stanno le cose, degli schemi di cui sono prigioniera. Per cui mi sento sola e senza amici con cui confrontarmi, ho solo mio marito”. 

Cosa faccio innanzitutto, già nel primo incontro, per aiutare Simonetta? La accolgo, la accetto, la ascolto attivamente. Così facendo, fin dall’inizio la aiuto a mettere a fuoco la sua situazione, ma soprattutto a mettere a fuoco le emozioni che prova.

Qual è il disagio di Simonetta? In realtà, emergono subito diversi aspetti:

1) la malattia del figlio, il suo futuro incerto, con il carico di responsabilità e di decisioni da prendere che esso comporta;

2) la difficoltà a prospettare un futuro nella sua vita, cioè a scindere Simonetta in quanto donna da Simonetta in quanto mamma di Samuele;

3) insoddisfacente vita relazionale, in particolare insoddisfacenti relazioni amicali;

4) mancanza di motivazioni, di chiarezza su valori e scopi, sui suoi obiettivi e sulle sue stesse capacità.

Simonetta esprime un insieme di paura, disorientamento, solitudine, angoscia, dolore, disperazione.

Le propongo di rivederci per iniziare un percorso di chiarificazione.

La invito a raccontare la sua storia, a fare un racconto autobiografico, per riscoprire emozioni, persone, situazioni che davano gusto, valore e senso alla sua vita prima di Samuele.

Inizia in modo disordinato a raccontarmi momenti di vita passata.

Sta muovendo i primi passi lungo quello che potrebbe essere per lei un percorso, non so ancora quanto lungo e accidentato, di esplorazione e di ricerca di se stessa; un percorso che si può intraprendere solo partendo da sé.

Anche se non c’è alcuna sollecitazione da parte mia, in modo spontaneo si serve prevalentemente di immagini, che rievoca parlando lentamente, con lo sguardo che a volte sembra fissarsi su un punto lontano, come se stesse effettivamente vedendo quello che mi descrive:

“Una volta in cui sono stata davvero felice è stata quando io e mio marito abbiamo vinto un rally e, uscendo dall’auto, ci siamo tolti i caschi rossi e grigi. Pioveva a dirotto ed eravamo zuppi d’acqua, ma è niente rispetto all’emozione che sento ancora dentro: mi sembra di rivedere il viso sorridente di mio marito…”. 

“… adesso che penso alla pioggia mi ricordo quando è arrivata una grande grandinata e sono riuscita a salvare tutte le mie piante, li sì che ero veramente felice e saltavo di gioia, a tal punto che ridevo da sola perché ero riuscita a fregare la tempesta…”. 

“… altri salti di gioia li facevo quando tornavo a casa e le mie due oche mi venivano incontro finché non aprivo la portiera della macchina”. 

Simonetta richiama alla memoria persone ed emozioni che per lei erano importanti e si rende conto che invece, attualmente, non ha intorno a sé nessuno con cui condividere simili esperienze.

Queste immagini, e soprattutto il modo in cui le collega, seppur senza rendersene conto, richiamano aspetti importanti del suo vissuto emotivo.

Anche se quei momenti sono passati, sono presenti nel suo ricordo e quindi sono come un serbatoio a cui Simonetta può attingere nei momenti di astinenza, come li chiama lei.

Osservo come la sua memoria proceda attraverso collegamenti che spesso sono costituiti da elementi apparentemente secondari, come nel caso della pioggia, ma che fungono da collante, in una sorta di montaggio di attrazioni. Forse così riesce a ritrovare un filo, che le consente di ricostruire, attraverso le immagini, parti significative del suo vissuto.

Le suggerisco di provare, ogni volta che si sente più giù del solito, a rievocare immagini come quelle che ha condiviso con me.

All’incontro successivo Simonetta mi dice subito di stare peggio della volta precedente.

“Ho provato a rievocare le immagini positive del mio passato, ma l’unico risultato è che mi sono sentita peggio. Pensare che non posso più fare i rally mi pesa tantissimo e se ricordo la felicità che provavo a salire sull’auto, mi viene l’angoscia. Anzi mi viene tanta rabbia al punto che devo trattenermi per non prendermela con Samuele. E subito dopo vado fuori di testa e mi sento in colpa”. 

“Mi sembra di peggiorare ogni giorno di più, pensavo che mi sarei sentita più leggera dopo i nostri incontri, invece mi accorgo che la fatica è aumentata”. 

È naturale che Simonetta si senta peggio della prima volta che ci siamo incontrati. Sta vivendo un altro tipo di sofferenza, che si aggiunge al dolore che già contrassegna la sua vita: la sofferenza attraverso la quale è necessario passare per iniziare e per portare avanti un percorso di autoconsapevolezza, che è anche un percorso di messa in discussione e di parziale decostruzione dell’immagine che in questi anni Simonetta ha costruito di sé e che gli altri le rimandano.

Le chiedo che immagine ha di sé.

“Il giorno che sono nata mi è stato dato un nome, il giorno che è nato mio figlio io quel nome l’ho perduto, ho perduto forse la mia identità: sono divenuta la mamma di…”. 

“Mi sembra di vivere due vite contemporaneamente: una deve essere lucida e presente alle sue e alle nostre esigenze, l’altra è sempre in volo alla ricerca della cosa che ora mi appare l’unica via di salvezza: la forza”. 

Questo è un punto importante, sul quale sarà necessario tornare in incontri successivi.

Come avevo chiesto a Simonetta di descrivermi momenti che davano senso alla sua vita, ora le chiedo di provare a farmi capire come si sente quando le viene l’angoscia.

“Non riesco a descriverla, perché non trovo le parole che rendano quello che sento dentro. È come un baratro nel quale finisco senza nemmeno rendermi conto”. 

“Parole ne ho tante, ma non serve a nulla: da questo abisso, comunque vadano le cose, io non ci esco più”. 

“Tutto rimane dentro, tutto verrà sepolto ed inizi così a fossilizzare le pareti del cuore”. 

“Solo quando il cuore ti sanguina tra le mani puoi avere la vera comprensione del dolore”. 

Dalle parole di Simonetta emerge chiaramente la difficoltà di comunicare il dolore, nonostante il suo sforzo di usare immagini come quella del cuore che sanguina.

Proprio per questo le chiedo di rimanere sulle immagini, in particolare su quella dell’abisso e di descriverla meglio.

“Mi sento dentro un grande imbuto. Ci scivolo dentro, percorro le pareti andando sempre più giù, fino ad arrivare alla parte più stretta. Mi capita così ogni volta che ci finisco dentro. E mentre vado in giù me ne accorgo che sto precipitando, solo che non riesco a fermarmi. Poi, quando sono in fondo, l’unica cosa che faccio è guardare in su. A quel punto mi trovo di fronte ad una montagna insormontabile, mi sembra che non tornerò mai più su e che rimarrò in quell’abisso per sempre”. 

Le chiedo di provare ad immaginare in che modo potrebbe risalire l’imbuto per ritornare alla parte più larga.

“Quello che mi serve è una boccata di ossigeno, infatti là sotto mi manca l’aria. Mi sento trascinare sul fondo da una catena con un peso enorme attaccato soffoco e c’è buio. Sono piccola e non posso muovermi. Qualsiasi cosa faccia non riesco a riemergere… e poi di colpo senza accorgermi sono fuori all’aria, alla luce, libera. E… per un’altra volta ancora sono salva”. 

“Se ripenso a che cosa è che in passato mi ha fatto risalire, mi rendo conto che si tratta di cavolate, basta poco: una giornata di sole, un mezzo sorriso di Samuele, uno stimolo che vada a farmi venir voglia di far qualcosa, di creare. Infatti quando sono in fondo all’imbuto, non ho voglia di niente e mi sembra che niente mi possa riaccendere. Però poi è un attimo: mi ricordo che una volta ho visto in televisione un ovetto colorato e ho pensato che avrei potuto farlo uguale. La mattina dopo mi sono alzata con la voglia di creare: ero già tornata nella parte larga dell’imbuto”. 

In questo caso sono io che la stimolo a far uso del suo immaginario per parlarmi del suo dolore, per renderlo attraverso immagini, visto che è così difficile comunicarlo attraverso il linguaggio verbale.

Immagini come quella dell’imbuto o della montagna hanno un valore metaforico e simbolico, che l’aiuta a delinearle con maggior precisione; mi dice spesso che si “vede” scivolare nell’imbuto e che la montagna si staglia così nettamente e minacciosamente di fronte a lei, che il senso di soffocamento che prova è di grande intensità.

La semplice procedura immaginativa che le propongo, cioè di immaginare in che modo possa uscire dall’imbuto nel quale è sprofondata, attiva il suo immaginario verso una risposta che va nella direzione della cura di sé, della risalita verso l’ossigeno che in fondo al baratro le manca. E così sono le immagini stesse, come quella della giornata di sole o dell’ovetto colorato, che le vengono in soccorso e riattivano una modalità tutto sommato semplice per tornare a respirare e sentirsi libera.

In un incontro successivo Simonetta, mentre mi racconta della sua settimana, ad un certo punto non riesce più a trattenersi ed esplode:

“Perché tutto questo sta succedendo a me? cos’ho fatto di male perché mi accada tutto questo? È colpa mia? Dove ho sbagliato?”. 

Da questa domanda è iniziato un lungo percorso che ha permesso a Simonetta di capire che questo viaggio non le darà mai la risposta che cerca ma la porterà, usando le sue parole, “laddove non avrei mai pensato, in un luogo lontanissimo in un mondo difficilissimo da raggiungere un luogo dove pochi riescono veramente a penetrare, questo viaggio mi porterà a conoscere la mia vera anima”.

“Quando sono dentro l’imbuto e mi manca l’aria, non mi riconosco più; a volte è come se ci vedessi un’estranea in fondo a quell’imbuto”. 

“La cosa più importante è che quando esci da questo abisso diventi indistruttibile. Combattere contro un nemico è sicuramente molto difficile, ma combattere contro se stessi lo è ancora di più, perché per vincere devi conoscere il tuo avversario e non c’è nulla al mondo di più complicato di riuscire a capire chi e che cosa siamo”. 

Partiamo da qui per sviluppare insieme una ricerca del “come sono e come vorrei essere”, alla scoperta dei suoi perché, delle sue motivazioni, dei suoi valori e dei suoi scopi.

La invito a descriversi usando solamente immagini.

“Mi vedo forte come una leonessa che ruggisce in continuazione, che è potente e che non ha paura di niente. Questa leonessa, però, quando vede il suo cucciolo in pericolo si trasforma in un coniglio”. 

Le chiedo poi di visualizzare il suo “come vorrei essere”.

“Vorrei essere un sole: poter illuminare e scaldare la vita di mio figlio e di mio marito. E se anche qualche nuvola lo copre, alla fine lui vince sempre e torna a brillare”. 

In questa attività particolare importanza ha l’immaginazione nella costruzione dell’immagine di sé.

Attraverso l’immaginazione Simonetta riesce ad uscire da sé per proiettarsi in un percorso di trasformazione e di costruzione di un nuovo sé. Questo non attraverso una pratica che l’allontana dalla realtà, isolandola in un mondo frutto della sua fantasia, ma, al contrario, che, proprio perché parte dal “come sono” e si muove verso il “come vorrei essere”, favorisce il legame, più profondo e di carattere trasformativo, di Simonetta con la propria realtà.

A questo punto Simonetta mi dice che trova difficoltà nel rispecchiarsi nell’immagine che gli altri hanno di lei. Per farmi capire meglio si serve ancora una volta dell’immaginario.

“Gli altri mi vedono come un vulcano che erutta forza. Mi vedono sempre curata, truccata e sorridente. Dai loro sguardi sembra che una persona bella, che prova ad essere solare, non possa essere una persona che soffre. Quindi secondo loro non ho bisogno di aiuto”. 

“E se subito mi sento orgogliosa quando mi dicono che sono forte, con il passare del tempo ho capito che è stata la mia rovina: io non sono forte, io non voglio essere forte, tutto questo è molto più grande di me, io ho paura, ho bisogno di aiuto, aiuto aiutatemi io non voglio sembrare forte, io voglio solo piangere”. 

Mi viene naturale chiederle che immagine vorrebbe che gli altri avessero di lei.

“Vorrei che gli altri non mi vedessero solo legata alla mia situazione. A Samuele ho dato tutta la mia anima, per lui ho usato tutta la mia forza ed ogni mio respiro. Ma io non sono solo una mamma, sono una moglie e soprattutto una donna. Nessuna di queste tre persone può esistere nel migliore dei modi se anche le altre non vivono pienamente il loro essere”. 

Simonetta raccoglie quanto seminato per strada, mette insieme quanto emerso durante il percorso e mette così a fuoco i valori per lei importanti: cura, piccole dosi di libertà, dedizione, empatia, amore.

Simonetta mette a fuoco inoltre alcuni scopi concreti corrispondenti a quei valori, che danno senso alla sua vita: imparare ad accudire Samuele; trovare il tempo per leggere finché il bimbo dorme; prendersi cura di sé non trascurando l’aspetto fisico.

Simonetta è ora più consapevole, più capace di scegliere, con una mappa di valori, significati e scopi più ampia e più dettagliata. Conosce meglio se stessa, chi è e chi vorrebbe essere, i suoi perché. È più consapevole dei suoi schemi di pensiero e della sua volontà reale, concreta.

Simonetta è stata aiutata a sopportare ciò che non può evitare, a dare sempre e comunque un senso alla vita, senza indagare nell’ambito dell’inconscio psichico, non considerandola “malata” e senza impartire prescrizioni: semplicemente aiutandola a prendersi cura di sé e quindi favorendo la sua autonomia e la sua responsabilità.

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