Abstract

Il “movimento della mindfulness”, sempre più diffuso nei paesi a maggiore sviluppo (anche in Italia) contiene al suo interno elementi solo apparentemente omogenei, dei quali è necessaria un’attenta lettura, capace di individuare da un lato i rischi di manipolazione presenti in molte proposte che si affacciano in questo campo dall’altro le opportunità di sviluppo e liberazione intrinseche nelle pratiche di consapevolezza. L’articolo, riferito a realizzazioni e potenzialità della mindfulness rispetto al vasto insieme di esperienza umana che si esprime nella “vita di lavoro” si articola in tre brevi sezioni. Nella prima viene commentato il programma di mindfulness training sviluppato dalla multinazionale Google. Nella seconda vengono ripresi alcuni aspetti essenziali di un’esperienza di insegnamento condensata in Happiness at Work, un volume di recente pubblicazione che offre spunti importanti in questo campo. Infine, nella terza sezione, l’articolo riporta sinteticamente alcune considerazioni tratte da attività di training e ricerca attualmente in corso di sviluppo, rinviando a futuri contributi dedicati all’intersezione tra pratiche formative nel campo della mindfulness e pratiche di counseling di gruppo.

Keywords

Mindfulness, lavoro, counseling di gruppo

 

L’onda della mindfulness

Una copertina e un lungo articolo sulla “mindful revolution” della rivista Time hanno ancora una volta portato l’attenzione del grande pubblico sulla mindfulness, presentata dal sottotitolo dell’articolo come la “scienza di trovare il proprio focus in una cultura stressata e costretta al multitasking” (Time Magazine, 2014).  L’interesse, non nuovo, di questa prestigiosa testata per le esperienze di meditazione (della quale mindfulness è spesso usato come sinonimo) è solo un’ulteriore testimonianza del peso anche mediatico di un movimento che ha come epicentro gli Stati Uniti e che continua a coinvolgere pubblici sempre più vasti su scala globale. Un movimento nel quale si combinano in modo singolare sia spinte all’efficienza individuale e organizzativa sia tensioni spirituali (considerando che nessun esponente della “mindful revolution” nega il proprio retroterra buddhista, anche se, in genere, è lungi dall’enfatizzarlo). Al successo di questo movimento contribuiscono peraltro le capacità di comunicazione e marketing espresse da una molteplicità di associazioni, scuole di management, siti e riviste online, imprese e molti altri che stanno cavalcando l’onda.

Il movimento della mindfulness trae indubbiamente la sua forza dai fenomeni di ansia, stress e insicurezza che pervadono il mondo in cui viviamo. Il “cittadino del mondo globale”[1] sente di mancare di qualcosa che è molto importante a fronte dell’incertezza e dello stress avvertiti come suo pane quotidiano. A tutto ciò un pubblico sempre più vasto cerca di far fronte – nei casi migliori – con “tecniche” da cui si può attendere sia serenità e rilassamento sia maggiore energia per affrontare la sfida quotidiana del vivere e del lavorare in ambienti complessi e stressanti. In un numero forse più ristretto di casi la ricerca non si rivolge a “tecniche” ma a approcci che consentono qualche forma di interrogazione sulla propria soggettività e sui propri percorsi personali, secondo opzioni che rimandano a forme non banali di conoscenza e liberazione dalla sofferenza.

Nello spazio tra la piena strumentalizzazione della mindfulness come tecnica ricostituente e la sua collocazione in un tragitto potenzialmente liberante possono prendere corpo diverse ipotesi. Questo breve articolo commenta due approcci riferiti alla “vita di lavoro”. Il primo è quello del programma di mindfulness training di Google (l’impresa che, insieme alle sue note sorelle californiane, rappresenta il top dell’eccellenza dell’odierno capitalismo tecnologico e finanziario).  Il secondo riguarda l’esperienza di insegnamento condensata in Happiness at Work, un volume di recente pubblicazione che offre spunti importanti in questo campo. Infine l’articolo riporta sinteticamente alcune considerazioni tratte da attività di training e ricerca attualmente in corso di sviluppo, rinviando a futuri più complessi contributi.

Cerca in te stesso, o nella cultura aziendale?

Uno dei significati più accreditati e diffusi di mindfulness è quello di “consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante alle cose come sono”.[2] In relazione a questo principio sono stati predisposti gli ormai famosi protocolli MBSR (mindfulness based stress reduction). Nell’arco di circa un ventennio, gli interventi basati su tali protocolli hanno acquisito una solida credibilità, prima nell’ambito di comunità scientifiche assai esigenti (grandi ospedali e istituzioni sanitarie, gruppi di ricerca nel campo delle neuroscienze, aree emergenti della filosofia della mente e della psicologia cognitiva) e poi un seguito di pubblico tutt’altro che irrilevante. Il MBSR è un metodo finalizzato ad addestrare i destinatari a una posizione aperta e lucida nei confronti dei propri stati fisici e mentali, tale da ridurre in modo apprezzabile i livelli di sofferenza e la presa sulla mente dei contenuti negativi. Come dimostrato da una vasta casistica, trattata con tutti i crismi della ricerca scientifica, il metodo ha ottenuto risultati significativi nell’ambito di programmi rivolti a piccoli gruppi, affidati alla conduzione di personale formato con uno specifico training.

Il programma Search Inside Yourself sviluppato da Google per molti aspetti riprende e amplia l’idea alla base del MBSR, con l’avallo del suo principale autore, Jon Kabat-Zinn, cooptato nella faculty aziendale che ha progettato il programma stesso e ne ha controllato l’avanzamento (Tan, 2012).  L’idea di fondo è quella di far incontrare e familiarizzare alla mindfulness piccoli gruppi di dipendenti, considerati ovviamente non come clienti da guarire ma come individui con doti personali e professionali da far progredire attraverso la comprensione e gestione delle proprie dinamiche cognitive, emozionali e relazionali. Nell’attuazione del programma è stato mantenuto un arco di operatività (una serie di incontri della durata di mezza giornata nell’arco di sette settimane) analogo a quello dei corsi MBSR. In termini concettuali Search Inside Yourself ha introdotto un viraggio fondamentale accoppiando il riferimento alla mindfulness con quello all’intelligenza emozionale intesa secondo l’approccio portato al successo globale da Daniel Goleman.[3] Il programma si presenta come un mindfulness-based emotional intelligence curriculum realizzato con l’apporto consulenziale diretto dello stesso Goleman e la direzione Chad-Meng Tan, un ingegnere con diversi anni di anzianità in Google, il quale ha trasfuso nel programma la propria curiosità e passione di meditante accoppiata con la mentalità e l’esperienza tipica di uno scienziato-manager.

Il programma si articola in tre fasi, corrispondenti a tre obiettivi di fondo: il training all’attenzione (considerato come base necessaria dell’intelligenza emozionale e rivolto alla rafforzare le qualità di calma e chiarezza della mente); la conoscenza e la padronanza di sé (sviluppate in rapporto al flusso del pensiero a livello sia emozionale sia cognitivo, da un punto di vista prossimo a quello della “terza persona”); la creazione di utili abitudini mentali (orientata soprattutto alla cura di rapporti interpersonali come premessa dell’instaurazione di climi di fiducia e collaborazione produttiva nell’organizzazione).

In introduzione al programma vengono presentati alcuni principi sia dell’intelligenza emozionale (i suoi aspetti più finalizzati alla performance, alla leadership efficace e a una socialità felice) sia della mindfulness secondo l’approccio centrato sull’attenzione non giudicante. L’essenza di Search Inside Yourself è comunque costituita dalla familiarizzazione con una serie di tecniche meditative. Il corso si avvia infatti con l’addestramento al respiro e con brevi sessioni di mindfulness training, condotte per piccoli gruppi e guidate da trainer esperti, per poi  proseguire con alcuni livelli ulteriori di affinamento della pratica. I partecipanti sono ad esempio portati a distinguere la dimensione “focalizzata” della meditazione (basata sulla concentrazione) e quella “aperta” (nella quale si punta soprattutto a cogliere i fenomeni mentali come si presentano momento per momento). In una fase intermedia del percorso i partecipanti vengono stimolati a padroneggiare le cause dello stress accoppiando l’esplorazione della mente con quella del corpo (attraverso momenti di body-scanning). In fasi finali viene proposta una tecnica che alterna momenti di controllo del respiro e momenti riflessivi, rivolta a contrastare le situazioni problematiche.

Al pari di ogni buon corso di formazione aziendale, il programma è anche caratterizzato dal ricorso a pratiche riflessive e interattive, condotte individualmente, in piccolo gruppo o in coppia, per l’applicazione dei principi della consapevolezza e della presenza mentale a momenti topici della vita organizzativa. L’ascolto consapevole, ad esempio, è proposto come un esercizio con il quale ci si addestra all’accoglienza e all’accettazione dell’altro in ogni circostanza e si contrasta il pressapochismo delle relazioni tipico di un mondo delle organizzazioni sempre più ipercinetico e spersonalizzante. La conversazione consapevole si compone di una serie di accorgimenti e micro-tecniche che ulteriormente rendono efficaci le capacità di ascolto. L’emailing consapevole allena a forme corrette di uso di questo fondamentale canale di comunicazione. Altri esercizi mirano a far emergere le doti di creatività e inventiva, o anche alla riflessione personale, attraverso momenti dedicati posti sotto un titolo del tipo “la scoperta del mio futuro ideale”.

Al di là dei suoi obiettivi e aspetti tecnici il programma persegue una meta solidamente ancorata nella corporate culture dell’impresa che lo ha generato, ben rappresentata, in estrema sintesi, dal sottotitolo “accrescere la produttività, la creatività, la felicità” con cui Search Inside Yourself viene rivolto anche al grande pubblico. Lo scopo della produttività è non a caso messo al primo posto e supportato da un’altra esaltante affermazione firmata dal presidente di Google “questo libro e il corso su cui è basato rappresenta uno dei maggiori aspetti della cultura di Google, quello per cui una persona con una grande idea può veramente cambiare il mondo”. Il libro inneggia infatti nelle sue conclusioni non solo al successo aziendale ma alla pace mondiale e alla possibilità di svilupparla creando ovunque persone emozionalmente intelligenti.

Dal vasto movimento, complessivamente inteso, della mindfulness americana non sono mancate critiche alla natura ideologica dei diversi aspetti che caratterizzano il programma di Google, come esempio illustre di una tendenza ben più vasta.[4] Già prima e al di là della risonanza di  Search Inside Yourself  c’erano stati infatti significativi caveat riguardo alla “mcdonaldizzazione della mindfulness”, fino al conio dell’espressione McMindfulness come segno di una tendenza inaccettabile. Per riassumere brevemente, le critiche riguardano in generale  il travisamento del concetto di mindfulness perpetrato dalle interpretazioni produttivistiche, laddove queste mettono lo sviluppo dell’attenzione e la riduzione dello stress al posto di mete fondamentali come la trasformazione della mente e l’eliminazione di stati mentali come l’avidità, l’avversione e la delusione.  Dal punto di vista di un buddhismo allo stesso tempo rigoroso e “impegnato” da cui provengono questi caveat la organizational mindfulness rappresenta lo snaturamento e la banalizzazione di principi e concetti fondamentali che dovrebbero essere invece applicati a sforzi di liberazione non solo individuali ma anche collettivi e non strumentalizzati da corporation che hanno già fin troppo potere nel mondo.[5]

La felicità al lavoro

Le ipotesi di organizational mindfulness come quella rappresentata nel programma Google non esauriscono il discorso su un argomento – l’applicazione della mindfulness nella vita di lavoro – che ha generato una una molteplicità di punti di vista.  Molto interessante, ad esempio – restando al livello di brevi cenni permesso da questo articolo – è il recentissimo contributo di Sharon Salberg che, in  Happiness at Work, ha sistematizzato una serie di spunti connessi alla sua attività di mindfulness trainer in diversi contesti (Salzberg, 2014).[6] Con Happiness at Work siamo in presenza di visione aperta, non condizionata dalla logica di una cultura aziendale forte e con evidenti esigenze di visibilità esterna. Happiness at Work è infatti in buona parte costruito su riferimenti a esperienze di mindfulness training che l’autrice ha potuto condurre con persone a livelli di competenza e responsabilità molto vari (non solo manager e genietti dell’informatica ma anche cameriere, poliziotti, assistenti sociali, etc..). Il libro è organizzato in otto sezioni principali, ciascuna dedicata a un “pilastro” della vita di lavoro e complementata da testi di meditazione guidata e da esercizi riflessivi. In estrema sintesi, il pilastro equilibrio verte sulla capacità di intendere la differenza tra sé e il proprio lavoro introducendo una salutare distanza tra qualcosa che ci riguarda profondamente ma in cui non si risolve tutto il nostro essere nel mondo. La concentrazione è il tratto fondamentale della focalizzazione su ciò che facciamo senza essere sviati da distrazioni e sogni a occhi aperti. Nella sezione sulla  compassione viene richiamata l’importanza del mantenersi consapevoli su un piano non solo cognitivo ma anche empatico rispetto a sé agli altri (coloro con cui si condivide direttamente l’esperienza professionale e, più in generale, l’umanità di cui spesso ci dimentica di far parte).  Al discorso sulla resilienza viene dedicato lo spazio che merita questa fondamentale capacità, cui ci si deve appellare nei momenti, non infrequenti nella vita di lavoro, di recupero rispetto a sconfitte, frustrazioni e fallimenti. Quella su comunicazione e connessione è un’altra sezione importante, dedicata a un tema molto noto per lo sviluppo delle risorse umane, spesso però confinato in un tecnicismo che impedisce di cogliere il senso profondamente umano del comunicare. Altre sezioni sono dedicate all’integrità (una qualità troppo spesso dimenticata dell’azione individuale), al significato (in qualche misura richiamando il tema del sensemaking, fondamentale negli studi organizzativi), alla consapevolezza aperta (che rappresenta il pilastro più caratterizzante della mindfulness in quanto tale).

L’insieme di questi “pilastri” è commentato attraverso osservazioni, riflessioni, citazioni dalla letteratura scientifica e – molto utilmente – testimonianze dirette che spiegano il senso del mindfulness training in specifiche situazioni. Ad esempio, come riportato da una delle numerose voci che echeggiano nel libro, lo sviluppo della mindfulness può far evolvere la concezione del tempo tipica del knowledge worker nelle grandi organizzazioni.  “Pianifico molto e penso molto al futuro – afferma uno dei testimoni citati da Salzberg (p. 34) –  .. fa parte del mio lavoro. Ma è qualcosa che mi può far impazzire… Quando ho cominciato a meditare mi sembrava impossibile fare il mio lavoro focalizzandomi su qui e ora… Ho imparato che è sempre meglio focalizzarsi sul presente, quando, ad esempio, devo dare tutta la mia attenzione a una riunione di pianificazione o quando devo apportare aggiornamenti a un specifico piano”.

Coltivare la consapevolezza nella vita di lavoro

Nel confronto tra Search Inside Yourself e Happiness at Work è tangibile il salto che con quest’ultimo si compie verso l’interezza dell’esperienza della persona al lavoro, in genere alle prese con problemi, contraddizioni, desideri di miglioramento più che con grandi obiettivi di sviluppo (e magari di “pace universale” come proclamato dall’approccio Google). E tuttavia anche in Happiness at Work sembra aleggiare una sorta di pregiudizio funzionalistico. La mindfulness appare come una sorta di ricetta sempre valida e capace di supportare esigenze che sono “umane” ma che in fin dei conti vertono in primo luogo sull’efficacia e su capacità di equilibrio, concentrazione, etc..  Guardare con occhio disincantato a un approccio come quello di Salzberg non significa sminuire l’importanza di obiettivi che hanno a che fare con il rasserenare e il rendere più efficaci – e anche compassionevoli – le prestazioni di lavoro. E’ ovvio che c’è molto bisogno di questo tipo di obiettivi in tutti gli ambienti di lavoro e che  non si può non essere d’accordo con ogni sforzo in queste direzioni. Ma non può sfuggire che proporre la mindfulness – anche con le migliori intenzioni – come strumento , anche se rivolto al benessere individuale più che alla performance, significa in ogni caso tradirne il senso più profondo. Non c’è dubbio che Salzberg adotti una nozione di mindfulness più morbida e ricca di ispirazione etica rispetto a Search Inside Yourself (che la riduce essenzialmente alla dimensione dell’attenzione secondo l’approccio MBSR).  Ma la mindfulness di per sé rappresenta una funzione della coscienza che può essere realmente coltivata solo a partire da un’intenzione che in qualche misura – almeno tendenzialmente – riesca a superare ogni intento finalistico. Ogni atto che in qualche misura si richiami alla consapevolezza in senso non banale dovrebbe essere in primo luogo guidato da una memoria dello scopo dell’atto stesso.[7] La questione fondamentale, da questo punto di vista, riguarda la possibilità di “ricordarsi” che viviamo realmente solo nel momento presente e che stando in questo momento possiamo riuscire a sintonizzarci – anche se sempre parzialmente e imperfettamente – con una dimensione di verità e libertà.  L’ipotesi è che da questa posizione – sviluppata attraverso le pratiche di mindfulness – sia possibile instaurare una visione più equilibrata delle diverse realtà di cui siamo partecipi, tra cui quelle che comprendono le attività di lavoro cui ci dedichiamo e le relazioni organizzative – di qualunque tipo esse siano – in cui si attivano le nostre emozioni e si mettono alla prova le nostre strategie di sopravvivenza e sviluppo.

Le pratiche di mindfulness sono intrinsecamente non-finalizzabili in quanto aprono a esperienze peculiari degli stati individuali (mentali, fisici e emozionali) e comportano una dimensione di “non-giudizio” centrato sia sul riconoscimento equanime della qualità e della colorazione etica di tali stati sia sulle cause e condizioni in cui tali stati prendono forma (Goldstein, 2013).

In questo senso la mindfulness si pone come una dimensione esperienziale diversa rispetto a quelle attivate dalla ricerca dell’intelligenza emotiva e della felicità al lavoro, certamente non contrastante con queste ultime ma posizionata su un’altra lunghezza d’onda. Di questa diversità si hanno anche, peraltro,  importanti riscontri neuro-scientifici. Recenti studi evidenziano, anche a livello di localizzazioni cerebrali, l’esistenza di due circuiti della conoscenza di sé: uno basato su una consapevolezza “narrativa” l’altro fondato sull’ “esperienza diretta”. Il primo circuito è quello di una conoscenza di sé che si genera nel corso degli eventi e nella dimensione empirica della realtà. Nel secondo circuito invece la consapevolezza riguarda il “qui e ora” di stati mentali, sensazioni fisiche e emozioni che in genere scorrono inosservati.[8]  Gli studi neuro-scientifici mostrano che nei non-meditanti si attiva quasi esclusivamente solo il primo circuito mentre nei meditanti si attivano entrambi, offrendo anche maggiori opportunità di percezione delle situazioni e di elaborazione di strategie di azione non routinarie.

Questa sorta di richiamo alle origini e all’essenza profonda della mindfulness tende a offrire qualche chiave non solo per meglio inquadrare la questione del suo rapporto con la vita di lavoro ma anche per progettare interventi non strumentali di mindfulness training.  Rinviando a un futuro contributo più specifico e circostanziato,  tali interventi sembrano inquadrabili nello spazio che intercorre tra due diversi passi fondamentali. Il primo, che ha a che fare con l’entrata in questo tipo di programmi,  si connota in termini essenzialmente riflessivi e verte su questioni del tipo “com’è la mia vita di lavoro”; “cosa sento”, “come mi vedo agire” etc.. in merito alla quali i partecipanti possono essere facilitati ad auto-interpellarsi (Tomassini, 2014; Tomassini, in print). Il secondo passo può indirizzarsi a sua volta verso due tipi di uscita: un’uscita semplice, in cui il partecipante si ritiene – in ipotesi, sperabilmente –  soddisfatto della breve esperienza compiuta, da integrare nel proprio bagaglio di orientamenti nella vita quotidiana. Ovvero un’uscita più complessa  (possibile, ma per nulla obbligata), legata alla possibilità di approfondimento in modo personale del discorso della mindfulness, in particolare orientandosi verso pratiche di meditazione da svolgere sotto la guida di insegnanti qualificati.

Tra questi due passi si stende il terreno di una formazione che tende essenzialmente a informare rispetto alle potenzialità di un “metodo” (nel senso di una via da percorrere) per riconsiderare diversi aspetti, anche critici, dell’esserci nella vita, a partire da una sua manifestazione tipica come quella della partecipazione ai processi di lavoro e di organizzazione. Una formazione che si connota essenzialmente come esperienziale e che si può fare largamente coincidere con forme avanzate di counseling di gruppo.

Un approccio come Search Inside Yourself, da questo punto di vista, depurato dalle sue cariche ideologiche e finalità strumentali, non  manca di offrire anche qualche riferimento valido in termini di impostazione.  Un buon percorso di mindfulness nella vita di lavoro può, ad esempio, essere strutturato per moduli chiaramente rappresentabili, di durata prefissata, articolati in momenti di conoscenza e pratica di forme elementari di mindfulness e momenti di riflessività individuale e interazione tra pari. L’ipotesi, finora verificata su scala ridotta,[9] è che si debba procedere non sulla base di protocolli rigidi ma per sequenze abbastanza stabili di argomenti e attività, da ristrutturare di volta in volta in funzione di specifiche esigenze dell’audience.

Un aspetto fondamentale riguarda ovviamente la committenza di questi interventi, che non può essere quella  delle direzioni aziendali (anche se non può essere esclusa a priori la fattibilità di interventi richiesti da qualche management “illuminato”). L’offerta di questo tipo di interventi sembra vada rivolta essenzialmente a piccoli gruppi di persone che riescono a intendere l’utilità di un percorso in questo campo e abbiano quantomeno intuito l’importanza della mindfulness nell’ambito di una maturazione personale più complessiva, anche senza voler ignorare eventuali riflessi positivi anche a livello professionale. La vita professionale da questo punto di vista non è il fine ma un mezzo: è una straordinaria palestra per il riconoscimento delle modalità di funzionamento del sé in rapporto agli oggetti di attenzione (i contenuti e gli strumenti del lavoro), alle emozioni individuali (positive e negative) e alle relazioni personali.

I nuovi programmi possono quindi anche includere utili allenamenti a conversazioni consapevoli e a modalità meno stressanti di rapporto con l’email, il telefono, la riunione, etc.. Possono anche dare spazio a esercizi che stimolano l’intelligenza emozionale (in una chiave non stereotipata e prescrittiva).  Ma la loro vera essenza è costituita dall’interrogazione sia delle dinamiche di costruzione del sé in contesti di lavoro sia della dialettica tra sé costruito-narrato e sé dell’esperienza diretta (mente-corpo). E’ da questa interrogazione che, in ipotesi, possono innescarsi processi individuali non di rinforzo ma di svelamento dell’identità personale/sociale, fonte allo stesso tempo di auto-rassicurazione e di auto-inganno (Han, 2012).

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Note

[1] La solitudine del cittadino globale è il titolo dell’edizione italiana di un’importante opera di Z. Bauman (Bauman, 1999)

[2] Questa definizione ricorre in una vastissima letteratura in cui Kabat-Zinn appare come autore o come riferimento principale. Cfr. ad esempio, Z. Segal, et al. 2002; Kabat-Zinn, 2005

[3] Esistono diversi approcci all’intelligenza emozionale ma quello di Goleman è il più praticato nella formazione aziendale. Cfr. ad esempio, Goleman, 1998; Goleman, 2012.

[4] Alcuni aspetti dell’onda della mindfulness aziendalistica sono riportati in Tomassini M, 2012.

[5] Su questo tipo di  posizioni si è accumulata una vastissima letteratura in una miriade di blog. Cfr. solo per qualche esempio, cfr. Loy D., 2012; Forbes D. 2012; White C. and Cooper A., 2014. Un fondamentale contributo è costituito da: Purser R.,  2013.

[6] Sharon Salzberg  è co-fondatrice del Insight Meditation Society , che dal 1975 rappresenta un fondamentale punto di riferimento teorico e di pratica per il buddhismo laico.

[7] Memoria è il primo fondamentale significato di mindfulness, prossimo a quello di sati (in pali, lingua del Buddha, equivalente a “memoria, consapevolezza, presenza mentale”). Sui significati di matrice propriamente buddhista di ciò che si può intendere per mindfulness esiste una vastissima letteratura. Mi permetto di rinviare per una ricognizione all’analisi svolta nel capitolo introduttivo a: Tomassini M., 2012.

[9] Un tentativo in questo senso è costituito dal programma “Coltivare la consapevolezza nella vita di lavoro” implementato dall’autore di questo articolo nell’ambito del Master in Counselling Aziendale e Bilancio di Competenze, di Sipea (Società Italiana di Psicologia, Educazione e Artiterapie). Cfr. Tomassini M., 2013.

Bibliografia

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