Abstract

La formazione del counselor sistemico richiede una metodologia didattica coerente con le modalità di comunicazione e relazione con l’altro che il counselor deve imparare a utilizzare. In particolare la capacità di uscire da una descrizione lineare di ciò che accade e dei comportamenti delle persone, l’attitudine alla curiosità e alla moltiplicazione delle ipotesi deve essere presente, come modello e come esempio continuo, nelle scelte didattiche e nelle modalità di comunicazione dei docenti con il gruppo in formazione.

Keywords

Counseling humanities, counseling sistemico, modello sistemico-relazionale

 

Il metodo del counseling sistemico è nato poco meno di 30 anni fa ed è stato un parto gemellare: insieme al metodo di intervento è nato il metodo di formazione a quell’intervento. Sistemici entrambi.

Non poteva essere altrimenti: avevamo in mente un professionista che era pressoché inesistente in Italia, e avevamo in mente anche professionisti già formati (medici, infermieri, educatori, operatori sociali ecc.) che volevamo avvicinare a una modalità di intervento che includesse una elevata competenza comunicativa e relazionale che non poteva che coincidere con il counseling. Nell’immaginare come formarli ci sembrava fondamentale un allenamento a quello che definiamo lo sguardo sistemico: l’attenzione alle connessioni, alle regole, a tutto ciò che “rende possibile” un comportamento disfunzionale, agli effetti delle presenza e della parole del professionista sull’equilibrio di un sistema (von Foerster, H., 1987).

Alle nostre spalle, l’immagine potente del Milan approach e quella che per me era stata l’esaltante esperienza di frequentare uno dei primi corsi di formazione per terapeuti della famiglia a Milano, e di imparare a pensare la relazione terapeutica in termini di sistemi e non di individui.

Una cosa era certa: quel modello, e tutta la riflessione intorno all’applicazione della teoria dei sistemi alla terapia della famiglia, potevano essere una ispirazione, un nutrimento per il nostro metodo di formazione al counseling, ma non potevano essere un modello da ripetere o imitare. Pensavamo a un nuovo professionista, e per nulla al mondo volevamo che fosse un replicante a buon mercato: perché la battuta – forse un po’ più che una battuta – che identificava il counselor come il terapeuta dei poveri girava a quei tempi, e in qualche modo gira ancora oggi.

Come abbattere il mito dell’intuizione folgorante

I partecipanti a un corso di counseling non sono personaggi casuali: per la maggior parte hanno una professione, in genere una professione legata all’ambito dell’aiuto, o della comunicazione. In genere, sono professionisti bravi. Interessati alla relazione. Interessati all’altro. Tanto da sentire viva l’esigenza di capire “chi è” l’altro, il loro cliente.

Fin dall’inizio del percorso formativo l’obiettivo di ogni intervento dei docenti dei nostri corsi di counseling sistemico è quello di far sperimentare direttamente, costantemente ai corsisti la presenza di un pensiero lineare dominante nella nostra lettura della realtà, e di scoprirne i limiti fino a recuperare una solida diffidenza nei confronti delle proprie capacità di intuire “come è” l’altro e “perché” si comporta in un certo modo.

Come farlo senza limitarsi a predicarlo? Come modificare uno sguardo sull’altro che spontaneamente è lineare, cerca cause, definizioni, certezze? Le tre strade maestre della formazione sistemica sono la conoscenza di sé attraverso la narrazione e il metodo autobiografico, la sperimentazione guidata di modalità di colloquio nei diversi contesti in cui un counselor può trovarsi ad intervenire, e la lettura commentata di tutto ciò che può consolidare una abitudine a vedere oltre la rassicurante intuizione del “lui fa così perché…”.

Per esempio Cenerentola

La fiaba di Cenerentola non rientra fra i sacri testi del pensiero sistemico. Ma è uno dei primi strumenti che utilizziamo per aprire lo sguardo dei futuri counselor alla emozionante verità del “cos’altro c’è oltre a quello che sembra?” (Bert, G., 2008).

Si tratta di raccontare la storia con le parole (e le emozioni) di una o l’altra delle sorellastre; della matrigna; o di quel misterioso e in apparenza inconsistente personaggio che è il padre di Cenerentola.

E di interrogarsi con curiosità crescente su ciò che sappiamo e su ciò che crediamo di sapere, sulla tendenza ad accontentarsi delle scorciatoie mentali che appiattiscono una storia complessa e attribuiscono con facilità superficiale ruoli invariabili di buono e di cattivo, di persecutore e di vittima. È più facile parlare di complessità dopo aver parlato di Cenerentola forse vittima delle sorellastre ma forse, chissà, lagnosa vittimista che cerca di staccare il padre dalla donna che ha sposato descrivendola come un mostro. È più facile intuire il significato che von Foerster dà al concetto di verità (von Foerster, H., Pörksen, B., 2001), e chiedersi quanto ci è utile in una relazione di aiuto, e quanto invece rischia di indirizzare il nostro sguardo alla ricerca di colpevoli invece che alla ricerca di nuove strade e di nuove possibilità di scelta.

Non è facile per un professionista che non fa lo psicologo rinunciare a letture lineari rassicuranti e veloci. La sensazione di perdere stabilità, di confondersi in mille ipotesi tutte potenzialmente vere, o false che fa lo stesso, è alla base di quella che con i corsisti abbiamo imparato a definire “vertigine sistemica”, e che per qualcuno è intollerabile. La necessità di capire in fretta fa parte della formazione e dell’esperienza quotidiana dei medici, dei professionisti sanitari, degli insegnanti ecc. che frequentano i nostri corsi. Al punto che si perde la consapevolezza di “cosa ce ne facciamo” di quello che ci sembra di avere capito.

Per questo il percorso formativo deve costituire una esperienza forte e coerente di un modo altro di entrare in comunicazione con le persone e con la loro realtà complessa.

Counseling humanities

Mantenere viva l’attenzione sulla quantità di intuizioni e di ipotesi che produciamo nello scambio comunicativo con un’altra persona, sull’uso che consapevolmente o inconsapevolmente ne facciamo quando decidiamo cosa dire e come dirlo, e sugli effetti che ogni comunicazione produce nella relazione con l’altro diventa un esercizio costante in tutti i momenti della formazione. Un film, un libro, una sequenza di colloquio diventano una palestra per chiedersi: cosa so a questo punto? Cosa mi serve sapere? Mi serve davvero? E per farne cosa? È almeno in apparenza un esercizio di lentezza: rallentiamo il pensiero per seguire le indicazioni sempre attuali di Gianfranco Cecchin, pensiamo in termini di ipotizzazione, di circolarità, e di curiosità (Cecchin, M., 1987). Compaiono domande inabituali, cosa non ho visto, a cosa non ho pensato, cosa rende possibile che…

Per muoversi con professionalità e competenza in una relazione di aiuto a partire da questa nuova visione della realtà e dell’altro servono meno le conoscenze e le competenze di tipo psicologico, e assai di più esperienze e competenze di tipo pedagogico, antropologico, umanistico, sociale. Per professionisti a cui non viene chiesto un intervento psicologico un bagaglio troppo ampio di conoscenze psicologiche risulta ingombrante, poco gestibile, poco collocabile. Produce ipotesi che non potranno essere sviluppate, immagini dell’altro che non potranno essere verificate.

Il modello di intervento a cui un counselor sistemico viene preparato è un intervento conversazionale in cui giocano competenze retoriche, linguistiche, pedagogiche. In cui le parole, la formulazione delle domande, l’uso delle metafore, dell’umorismo, delle riletture che propongono punti di vista diversi costituiscono per il cliente una esperienza inusuale di incontro con l’altro e di riflessione sulla realtà che è il cuore di quello che consideriamo un intervento di counseling sistemico: non l’offerta di soluzioni o di cure ma l’apertura ad altre visioni possibili.

Un modello formativo basato sulla coerenza

Anche l’incontro fra i corsisti e i docenti deve a nostro avviso costituire, in ogni momento della formazione, una esperienza inusuale di scambio, di comunicazione, di scoperta. Il modo in cui i docenti interagiscono con i corsisti, in cui facilitano la comparsa di ipotesi, in cui stimolano lo scambio fino a rendere il gruppo un gruppo che riflette, rappresenta in qualche modo un modello di ciò che il counselor sistemico metterà in atto nel suo incontro con il cliente (Doglio, M., 2007).

Gli atteggiamenti mentali che rappresentano la base dell’intervento sistemico

  • Ascoltare
  • Non convincersi troppo presti di avere capito tutto
  • Fare domande sistemiche
  • Ascoltare le risposte e utilizzarle in modo creativo
  • Non parlare troppo

diventano visibili nello stile didattico, e permettono ai corsisti di apprendere in modo attivo. La vertigine sistemica dei primi mesi di corso si trasforma in una attitudine alla curiosità e alla rinuncia alle certezze che è per noi l’obiettivo principale nella formazione di un counselor sistemico.

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Bibliografia

Bert, G., (2008), Cenerentola Don Rodrigo e Sherlock Holmes, Edizioni CHANGE, Torino.

Cecchin, M., (1987), Hypothesizing, Circularity, and Neutrality Revisited: An Invitation to Curiosity. Family Process, 26 (4). 405-41.

Doglio, M., (2007), Le avventure della formazione, Edizioni CHANGE, Torino.

von Foerster, H., (1987), Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma.

von Foerster, H., Pörksen, B., (2001), La verità è l’invenzione di un bugiardo, Meltemi, Roma.