Abstract

Che cosa è il copione di vita e come può essere utile al lavoro del counselor? Questo articolo, che trae spunto dal mio libro Raccontarsela (Cosso, 2013), parte dal concetto di copione di vita, alla base dell’approccio analitico transazionale, per arrivare a spiegare come le nostre decisioni infantili siano organizzate in un racconto che influenza il nostro vivere e come con la narrazione sia possibile esplorare tale racconto e facilitarne il cambiamento. La professione di counselor ci chiede di metterci al servizio della possibilità evolutiva dell’Altro e di farlo secondo tempi e modi definiti. Delineare i confini di tale possibilità è un punto fondamentale, credo, del nostro impegno, perché ci permette di capire quanto i nostri clienti siano “padroni del proprio destino” e in che misura ne siano consapevoli. Il presente lavoro propone l’idea che i copioni di vita possano essere esplorati anche dal counselor con la narrazione proprio perché questo è il modo in cui sono stati interiorizzati e perché rappresentarli con una storia permette di farli vivere nel qui e ora. E, per lo stesso motivo, tecniche narrative possono essere particolarmente efficaci per aprire nuove opzioni di “sceneggiatura” in copioni troppo rigidi o limitanti quando non è necessario impiegare tecniche regressive che richiedono una psicoterapia. La narrazione, infine, permette di identificare più velocemente insieme al cliente quando c’è la necessità di un invio in psicoterapia.

Keywords

Analisi transazionale, storytelling, Erick Berne

 

Alcuni dicono che il nostro destino
è legato alla terra (…) altri dicono
che il destino è intrecciato come un tessuto,
cosicché il nostro destino ne incrocia molti
altri, è la cosa che tutti cerchiamo
di cambiare o lottiamo per cambiare,
alcuni non lo trovano mai ma ci sono
quelli che vi sono guidati (…)
dicono che al destino non si comanda,
che il destino non è una cosa nostra.
Ma io so che non è così. Il nostro destino vive
in noi, bisogna soltanto avere il coraggio di vederlo.

Merida,
Ribelle-The Brave
(Walt Disney Pixar, 2012)

Quanto siamo liberi di essere noi stessi? Quanto invece il nostro percorso di vita è già deciso? Esiste il destino? E, se si, da cosa è determinato? E noi quanto siamo liberi di definirlo?

Queste domande esistenziali hanno impegnato filosofi e poi studiosi della psiche per millenni. Sono quesiti fondamentali perché la risposta che si sceglie determina poi anche tutto l’impianto etico della vita umana, definendo in modo diverso concetti come responsabilità, libertà, colpa, possibilità, potere. Come si deve porre un counselor di fronte a queste domande? Che importanza hanno per il suo lavoro? Chi scrive ritiene che ne abbiano molta, moltissima. Tanto da rendere il tema del copione di vita una tappa imprescindibile nei percorsi di counseling individuale, di gruppo e organizzativi che conduce.

Identità e destino

Interrogato da un lettore1 su quanto ereditarietà e ambiente influenzino le nostre vite, Umberto Galimberti risponde con un aneddoto:

Un giorno Merleau Ponty2, facendo visita a Sartre immobilizzato da un’ingessatura a una gamba, gli chiese: “Ma non potevi affrontare quell’escursione con una guida?” E Sartre di risposta: “Ma tu mi vedi accompagnato da una guida?”. (Galimberti, 2013)

Questa la riflessione di Galimberti che segue l’aneddoto: la nostra identità, ciò che noi siamo, influisce significativamente sulle nostre scelte e sui nostri comportamenti. E la nostra libertà si innesta nel margine di evoluzione della nostra identità. Come a dire: ciascuno di noi ha una certa possibilità di scelta di comportamento a seconda di quanto è definita rigidamente la sua identità. (Galimberti, 2013) Che, quindi, definisce in larga parte il nostro destino. E poiché la narrazione è uno dei modi attraverso cui pensiamo, con cui costruiamo la nostra identità e ci auto-sperimentiamo a livello sociale/organizzativo (Brooks, 2012; Fontana, 2010; Gabriel, 2000; Eakin, 1999) possiamo a ragione sostenere che la nostra identità è contenuta una narrazione che ci costruiamo e che continuiamo a raccontare a noi stessi e al mondo nel corso della vita. Questa narrazione è stata descritta come copione di vita e studiata prima da Eric Berne (Berne, 1958) e poi da tutta la letteratura analitico transazionale a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Di seguito ne riporto una breve sintesi utile alle argomentazioni che seguiranno.

Una sceneggiatura del vivere

La teoria del copione è stata delineata con questo nome da Eric Berne, fondatore dell’Analisi Transazionale (detta AT). Il primo scritto in cui Berne parla di copione è un articolo datato 1958, in cui il copione viene da lui definito come “un tentativo di ripetere in forma derivata non una reazione di transfert o una situazione di transfert, ma un dramma transferale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copioni teatrali che sono i derivati artistici intuitivi di questi drammi primari dell’infanzia” (Berne 1958).

Richard Erskine, un altro grande teorico dell’analisi transazionale ha aggiunto alcune osservazioni a quelle di Berne, parlando di un piano di vita basato su decisioni prese a un qualunque stadio dello sviluppo, che inibiscono la spontaneità e limitano la flessibilità nel risolvere i problemi e relazionarsi con gli altri (Erskine, 2010). Fanita English (English, 1988) ha evidenziato che il copione risponde a un bisogno profondo dell’essere umano, quello di strutturare il tempo, lo spazio dell’esistere e le relazioni che lo costellano. Questa sua lettura del copione come necessità oggi prevale in letteratura:

Il copione in Analisi Transazionale è il modo in cui il bambino racconta a sé la sua vita e quello che è necessario fare per cavarsela senza troppe ferite, all’interno del suo contesto di vita e di relazioni. Naturalmente, il racconto del bambino, più e più volte narrato a sé e messo in scena con altri significativi, è un racconto intuitivo, legato alle impressioni del bambino, a ciò che egli percepisce come suoi bisogni irrinunciabili da una parte e come richieste dell’ambiente dall’altra. (Rotondo, 2009)

Da questa ottica il copione diventa un vero e proprio modello di vita; certamente imperfetto perché costruito basandosi su di un apprendimento ancora esiguo e, quando influenzato da convinzioni ac-quisite con esperienze devianti, può essere fortemente limitante per le potenzialità dell’esistere della persona che lo ha creato. Eppure è un piano di vita che sottende tutta un’idea, un immaginario e una precisa visione del mondo, è un universo di convinzioni, di fantasie e di pensieri che popolano l’interiorità di un essere umano ordinandosi inconsapevolmente secondo schemi narrativi propri o condivisi. Una mappa identitaria, insomma.

L’AT non è naturalmente l’unica teoria che ha evidenziato che l’essere umano attua modalità di comportamento e scelte in qualche modo “obbligate” in determinate circostanze. Conferme a questa visione ci vengono da molte altre parti (Amadei, 2010). Secondo la teoria del darwinismo neuronale, per esempio, nell’infanzia, in conseguenza del determinato valore in termini di sostegno alla sopravvivenza che un bambino assegna a una certa esperienza, ad esempio, al cibo, alla temperatura, al contatto con altre persone si determina una sorta di graduatoria di scelta tra possibili comportamenti (Ghent 2002).

Potremmo anche dire che noi impariamo a essere motivati nel processo di attribuzione di significato in quanto questo rappresenta un grosso vantaggio ai fini della sopravvivenza. Tali attribuzioni e ri-attribuzioni di senso, o ciò che Edelman (1992) chiama ricategorizzazioni delle esperienze, sono intrinseche a ogni percezione e a ogni azione (Ghent, 2002). D’altra parte la stabilità e bontà delle relazioni affettive primarie sono così determinanti per la sicurezza del bambino, che lo stabilirsi di schemi mentali può essere interpretato come una strategia di sopravvivenza (Amadei 2010).

I recenti studi delle neuroscienze ci offrono ulteriori conferme: sappiamo infatti che in risposta agli stimoli dell’ambiente il cervello attiva una serie di circuiti, dando luogo a un insieme di pattern di ec-citazione anatomicamente e cronologicamente correlati, che vengono registrati, immagazzinati e successivamente “richiamati” sulla base di quanto enunciato da Donald Hebb (1980): “neuroni che vengono eccitati contemporaneamente una prima volta tenderanno a essere attivati insieme anche in seguito”.

Se passiamo dalla visione cerebrale a quella mentale, la psicoanalisi e le moderne scienze cognitive dello sviluppo concordano nel ritenere (Amadei, 2010):

  • che i bambini organizzano e danno forma alle micro sequenze interattive in rappresentazioni mentali, altrimenti definibili come schemi affettivi e cognitivi di sé e degli altri;
  • che questi schemi regolano un ampio spettro di successivi comportamenti.

Più questi schemi sono rigidi, più mi sarà difficile cambiarli facendo scelte e sperimentando soluzioni creative e nuove; instaurando relazioni strette con persone diverse da quelle abituali, avventurandomi in comportamenti inconsueti. E così la trama della mia vita sarà limitata e le mie opzioni di scelta ristrette e prevedibili.

Il copione quindi è

Un processo continuo di costruzione della realtà il quale si autodefinisce e talvolta si autolimita (…) la formazione del copione è quel processo tramite il quale l’individuo cerca di dare un senso agli ambienti familiari e sociali, di stabilire il significato della vita, e di prevedere e gestire i problemi della vita nella speranza di realizzare i suoi sogni e desideri (Cornell, 2004)

Ecco, penso che capire le dimensioni e la forma di quel margine di evoluzione sia per il nostro lavoro di counselor un punto fondamentale. Negli anni ho sperimentato vari strumenti per raggiungere questo obiettivo velocemente, ma quello che davvero ha dato risultati sorprendenti è stata la narrazione, ovvero lo storytelling applicato alle fiabe copionali. Vediamo perché.

Le parole ci dicono chi siamo

La nostra coscienza di noi e del mondo prende senso e forma attraverso il linguaggio, come ci ricordano Damasio (2011) e altri autori e l’inconscio è la parte più estesa della mente, quella dove maturiamo la maggior parte delle decisioni e hanno luogo molti dei più significativi atti del pensiero (Brooks, 2012). Nel suo Strangers to ourselves, Thimothy Wilson, psicologo dell’Università della Virginia, scrive che la nostra mente può gestire in ogni momento undici milioni di elementi di informazione, ma ottimisticamente possiamo pensare di essere consapevoli al massimo di una quarantina di essi. In pratica è l’inconscio a fare tutto il lavoro e la coscienza si limiterebbe a elaborare narrazioni che diano un senso a ciò che l’inconscio sta facendo di propria iniziativa (Wilson, 2002).

Un altro recente tassello teorico utile per spiegare la propensione alla narrazione degli esseri umani, è il cosiddetto darwinismo letterario. In The Storytelling Animal – How Stories Make us Human, Jonathan Gottschall, docente di letteratura del Washington & Jefferson College di Pittsburgh spiega che spendiamo quasi la metà del nostro tempo di veglia in mondi immaginari (2012). Il motivo sta nel fatto che noi, a differenza degli altri animali, abbiamo sviluppato la possibilità di riflettere su noi stessi e di svincolare la nostra percezione emotiva dal qui ed ora. Questa capacità, apparsa circa 50 mila anni fa con le prime forme d’arte del Paleolitico, ci ha dato la possibilità di prevedere gli eventi e prepararci ad affrontarli. Ma allo stesso tempo ci ha immerso in una infinità di combinazioni tra dati percettivi reali (ciò che sentiamo ora) e immaginari (ciò che sappiamo potremmo sentire). Alle api basta l’olfatto per capire se un loro simile è un fuco o un’operaia, noi dobbiamo tenere a mente strutture sociali complesse per sapere come comportarci. Come gestirli? “Facendo finta che”, ovvero immaginando possibili storie, modelli della realtà semplificata che ci permettano di riconoscere schemi in ciò che accade e rendere prevedibile ciò che accadrà tra poco.

Ecco perché, da quando nasciamo, della nostra esperienza del vivere noi facciamo una storia più o meno definita che ci permetta una certa predittività del futuro. L’incertezza di ciò che ci attende, che pure è parte imprescindibile del vivere, risulta però di difficile gestione per gli esseri umani. Per questo preferiamo “raccontarcela”, imbastendo una trama nota per gli anni – o le ore – che ci aspettano sulla base della nostra esperienza del vivere. Tuttavia non sempre quella trama è adatta ai risvolti della realtà, ai cambiamenti di rotta, agli incontri che facciamo. A quel punto abbiamo due possibilità: modificare la nostra percezione della realtà pur di non mettere in discussione la storia o, viceversa, rimanere permeabili a ciò che viviamo e permettere alla vita di influenzare il nostro copione. Le possibilità di cambiarne i dialoghi, saltare alcune scene, aggiungere ambientazioni non sono per tutti uguali, dipenderanno da quanto è rigido il copione che ci siamo costruiti nell’infanzia e da quanto ci sia possibile apportare modifiche sul momento. Certo che se nemmeno conosciamo la storia che siamo, sarà difficile accorgersi delle opzioni alternative di scelta e della nostra possibilità di intervenire per cambiare il nostro destino!

Quale realtà? Quale verità?

Siamo abituati a pensare che il pensiero sia un’attività logico-razionale, tipica della scienza. Esiste però un altro tipo di pensiero: quello narrativo, che è la modalità cognitiva attraverso cui le persone strutturano la propria esistenza, le danno significato e la interpretano (Bruner, 1986,1992; Barthes, 1981). La logica del pensiero narrativo è diversa da quella del pensiero scientifico, che come abbiamo visto è basata sulla ricerca di relazioni lineari di causa ed effetto; quella del pensiero narrativo è la logica delle azioni umane, che si basa sui processi di interpretazione e comprensione del senso dell’esistenza. La narrazione costituirebbe quindi un elemento fondativo del processo stesso del pensiero e della costante capacità della mente di reinterpretare il mondo esterno e il mondo interno. Simili osservazioni sono fatte da Steven Pinker (2009) uno dei maggiori esperti contemporanei delle relazioni tra linguaggio e pensiero. Diari, lettere e oggi Facebook, forme espressive tipiche dell’età pre-adolescenziale e adolescenziale, sono forme privilegiate di una capacità di “narrare di sé” che accompagna lo sviluppo di un pensiero sempre più adulto che si alimenta del confronto costante con gli strumenti narrativi custoditi dalla sua tradizione culturale. Miti, fiabe, favole, come i più complessi testi letterari della novella e del romanzo, sino al racconto epico, fanno parte di questo prezioso bagaglio (Campbell, 1990 e Von Franz, 2009). I copioni di vita sono senz’altro costruiti dal pensiero narrativo: attengono al mondo delle intenzioni e delle percezioni soggettive e non della descrizione oggettiva della realtà. Sembra perciò legittimo sostenere che gli strumenti narrativi siano i più indicati a descriverne gli snodi, i personaggi e le relazioni che intessono, i paesaggi e i confini.

Copioni narrati

La stessa teoria transazionale ha in parte accolto la sensibilità costruttivista dei principali studi sul linguaggio e la letteratura che attraverso i lavori di Wittgenstein (1968), Piaget (1954), Bateson (1971) e terapeuti come White (1981) hanno evidenziato che esistono diverse possibili realtà e che noi costruiamo i nostri ricorsi e la nostra identità e in generale noi stessi attraverso le storie che creiamo e co-creiamo con gli altri (Allen e Allen, 1997). Questo fa rientrare a pieno titolo il copione di vita nel mondo della narrazione.

The narrative mode (…) is the realm of stories. Its goal is believability. (…) Each of us has a story of his or her life, a narrated identity. In telling stories about ourselves we solidify our memories and identities, eliminate fragmentation, and create coherence in our sense of our lives. (…) the goal of therapy is to help the individual redesign and live his or her own story. (Allen e Allen, 1997)4

Alan Parry ha anch’egli ripreso la tradizione di pensiero costruttivista e ha definito un approccio narrativo in AT:

We become the stories we tell ourselves then believe as the truth. Such stories create a world that is defended because it upholds our identity. Narrative therapy externalizes these stories so that self-healing resources inherent in the soul can speak to us of its neglected longings and make us whole. (Parry, 1997)5

I suoi testi partono dall’idea che la mente umana si è evoluta allo scopo di raccontarci storie su di noi e a proposito di noi (Knight e Doan, 1994). L’importanza di un approccio narrativo nel lavoro sul copione è stato condiviso da molti teorici dell’AT anche di recente (Tosi, 2009): si riconosce infatti che la narrazione che sottende al copione, se fatta emergere, offre importanti informazioni sulla modalità di costruzione di senso del cliente, e sull’attribuzione di significati che opera nel vivere. Poiché inoltre l’esplorazione del copione in quanto storia permette di coglierne tutta la ricchezza di personaggi, atmosfere, emozioni e drammaticità, va anche nella direzione degli studi, influenzati dalla psicologia sociale, che indicano il copione come la drammatizzazione della comunità di sé che abitano i confini identitari di ciascuno di noi e che di volta in volta mettiamo in scena (Scilligo, 2009; O’Reilly-Knapp & Erskine, 2010; Tosi, 2009; English, 1988, Ventriglia, 2011).

La costruzione della storia

Come fare? Dobbiamo andare a vedere come “facciamo finta”, cosa e come raccontiamo: noi infatti applichiamo i nostri schemi copionali a qualsiasi cosa narriamo. Un uso competente degli strumenti narrativi quindi permette di evidenziare i pattern copionali di chi scrive ed è un metodo molto preciso, naturale ed efficace per comprendere e mettere mano alla nostra sceneggiatura esistenziale.

Quello che accade quando siamo “posseduti” dal copione è che tutto il mondo che ci circonda (le persone che amiamo, i colleghi, il traffico cittadino, il clima, lo sguardo della cassiera del supermercato…) entra suo malgrado a farne parte. E noi assoldiamo come comparse inconsapevoli tutto quanto ci circonda in quel momento: di fatto lasciamo sullo sfondo ciò che nella realtà non risponde ai bisogni della narrazione che dobbiamo mettere in scena e facciamo risaltare ai nostri sensi gli aspetti della personalità altrui o delle situazioni che viviamo che invece sono compatibili con quando dobbiamo rappresentare.

Lo facciamo tutti, ma con diversi gradi di rigidità. La nostra permeabilità alla realtà, e quindi la nostra capacità di aprire opzioni di significato e di scelta di comportamento a fronte delle esperienze che viviamo sarà più o meno elevata a seconda della rigidità del nostro copione. La nostra identità è incarnata in una storia che ne rappresenta il complesso intreccio di sensazioni, emozioni e modi di essere, il nostro modo di incarnare l’anima della specie (Brooks, 2012).

Già Berne aveva indicato che

…la fiaba preferita di una persona può offrire sfumature preziose sul modo di sentire e vedere se stesso e la vita. Per questa ragione è importante sapere quale sia stata la fiaba preferita della persona quando era ancora bambino, perché questa sarà la trama del suo copione, con tutte le annesse illusioni irrealizzabili e le tragedie evitabili. (Berne, 1972)

Come ci scegliamo la “nostra storia”? Avviene nell’infanzia, quando entriamo in risonanza con fiabe, racconti, filastrocche che ci vengono proposti da genitori (sempre meno), nonni, tate e baby sitter, programmi televisivi, la Walt Disney e la Pixar… Insomma peschiamo da tutte le parti, anche se le fiabe classiche si prestano in modo particolare perché riproducono la modalità umana naturale di trasmettere l’esperienza (Cosso 2013). Cosa scegliamo? Quello che ci somiglia, in cui ci ritroviamo, brandelli di storie di narrazioni che ci sembrano parlare di noi, di quello che stiamo vivendo, delle atmosfere che respiriamo, dei dolori che conosciamo. Certo dobbiamo fare qualche aggiustamento, cambiare qualche personaggio, renderlo più vicino… ma se scegliamo Cenerentola o Cappuccetto Rosso, Jack e la pianta di fagioli o Hansel e Gretel è perché quella fiaba e non un’altra racconta di noi e del copione che ci stiamo costruendo! Quella storia poi ci servirà come ripasso, come un “bigino” per ripassare la storia; per questo i bambini chiedono ai genitori di rileggerla, o di rivedere il Dvd fino alla nausea: una volta scelta la storia, non basta conoscerla, bisogna provarsela addosso, rifinirla, me-morizzarla. Per poi dimenticare che ce la siamo creata da soli e ritenerla vera.

Noi siamo tutta la storia

Una lettura narrativa dei copioni attraverso le fiabe copionali,6 allora, ci porta a intenderli in tutta la loro pienezza evocativa, tenendo conto del modo in cui sono stati creati. Gli esseri umani possono essere definiti in questo senso identità narrative che creano e co-creano, re-lazionandosi con gli altri, storie progettate per dare senso al proprio essere al mondo (Cosso, 2013; Scilligo, 2009; Tosi, 1993, 2010). Quando il plot che ci si è costruiti è molto limitante dell’espressione autentica di sé, può essere utile arrivare conoscerlo nel suo dispiegarsi narrativo per individuare il senso sotteso a quella specifica narrazione, gli snodi della trama che limitano le opzioni di rappresentazione della realtà, le scene in cui buchi nella sceneggiatura costringono a cortocircuiti mentali auto-referenziali. È insomma importante poter rappresentare il copione come storia, in tutta la sua complessità e ricchezza narrativa (English, 1988). Nella letteratura AT, in particolare è stato Karpman (Karpman, 1968) che ha identificato e introdotto nella lettura di una fiaba alcuni elementi fondamentali che rimandano direttamente ad alcuni modi di essere del copione. In particolare, secondo le sue osservazioni, la velocità con cui nella fiaba si verificano i cambi di ambientazione e quelli di ruolo da parte dei personaggi sono direttamente proporzionali al livello di drammaticità del copione. Nella lettura della fiaba, come in quella dei sogni e dei giochi, il narratore è rappresentato da tutti i personaggi e può contemporaneamente giocare più parti e più ruoli e vedere gli altri in uno qualsiasi degli altri personaggi e ruoli. Chi fa riferimento a Cappuccetto Rosso, per esempio, in alcune fasi della vita (o in alcuni momenti della giornata!) sarà la bambina che si addentra nel bosco spavalda, in altre la piccola mangiata dal lupo o salvata dal cacciatore, ma sarà anche a tratti il lupo, la nonna o la mamma, e così via. La prima cosa da fare quindi è valutare il numero di cambi di ruolo che il protagonista e i personaggi del racconto fanno all’interno del triangolo Persecutore-Vittima-Salvatore (Karpman, 1968). Per esempio, sempre in Cappuccetto Rosso, la protagonista inizia come S (che porta il cibo alla nonna V), ma diventa V del lupo P che a sua volta diventa V del cacciatore che gioca due ruoli: P nei confronti del lupo ma S per nonna e bambina. È da immaginare che la persona che riporta questa fiaba come “preferita” si troverà in vari momenti della vita a giocare tutte queste diverse parti della narrazione.

In un certo senso, raccogliere le narrazioni copionali è come aiutare la persona a fare un auto-ritratto con le parole e poi imparare a leggerne la complessità, il limiti narrativi, le possibilità evolutive (Cosso, 2012). Ma è possibile delineare un ritratto con le parole? Certamente, come ben ha spiegato Alessandro Baricco in Mr Gwyn:

Jasper Gwyn diceva che tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto (…) e quello che lui cercava di fare era scrivere quel libro per la gente che andava da lui. (…) Li guardava. Per molto tempo. Finché vedeva in loro la storia che erano (…) c’era di tutto. Una donna che cerca di salvare il figlio da una condanna a morte. Cinque astronomi che vivono solo di notte. Cose così. (…) E la gente alla fine si riconosceva (…) nelle cose che accadevano, negli oggetti, nei colori, nel tono, in una certa lentezza, nella luce, e anche nei personaggi, certo, ma in tutti, non in uno, in tutti, simultaneamente – sa, siamo un sacco di cose, e tutte insieme. (Baricco, 2011)

Noi, quindi, siamo tutta la storia che ci raccontiamo nel nostro copione. Di volta in volta interpretiamo una scena, un personaggio, un oggetto, un’atmosfera, un profumo. Di volta in volta ingaggiamo comparse e attori tra le nostre relazioni, nei passanti per strada, nel sole che brilla nel cielo o è offuscato da una nuvola, nel profumo di biscotti diffuso lungo una scala di marmo, nello sguardo del nostro counselor che ci ascolta raccontare di noi (Cosso, 2013; 2012; 2009).

Copioni svelati

Alla fine del primo incontro con un cliente, chiedo sempre di mandarmi via mail o portarmi a mano la volta successiva la sua fiaba preferita o una storia che ama, scritta “spontaneamente” cioè senza andare a consultare il vecchio libro di fiabe o la memoria malferma della mamma. Quello scritto sarà poi supporto e oggetto di analisi condivise per tutto il percorso: lì si ritroveranno le coordinate della mappa coionale, solo sotto forma narrativa, quindi con molte informazioni in più. Scrivendo, infatti, facciamo un’operazione molto importante: optiamo, tra i tanti modi di narrare quella fiaba, per quello che più sentiamo nostro, selezionando naturalmente stile, struttura narrativa, sintassi, aggettivi, tempi verbali… (Cosso, 2013; Demetrio, 1996, 2008)

Karpman (1968) identifica anche un utilissimo Location diagram che classifica i cambiamenti di “scena” all’interno della fiaba posizionandoli secondo uno schema che mette in relazione luoghi all’aperto o al chiuso, in pubblico o in privato, vicini o lontani. Così Cenerentola passa dalla casa paterna (al chiuso, privato, vicino), al giardino dove incontra la fata (all’aperto, privato, vicino), al ballo (chiuso, pubblico, lontano), e ogni volta sperimenta un cambiamento di ruolo nel triangolo drammatico. Il diagramma permette di analizzare la strutturazione dello spazio legandola a quella del tempo dell’autore della fiaba. Karpman identifica infatti delle “stanze di copione” (script rooms) che quando sono riprodotte nella vita, spingono la persona a interpretare un determinato personaggio con un preciso ruolo, esattamente come la trama della fiaba ha stigmatizzato. Un attento esame della struttura narrativa della fiaba offre quindi importanti informazioni su come l’autore definisca i propri ruoli drammatici e metta in atto le proprie decisioni di copione nei diversi momenti della vita e del quotidiano.

Anche la teoria sul minicopione (Kahler e Capers, 1974), combinata con gli studi di neurolinguistica e alla grammatica trasformazionale di Noam Chomsky (2005) ci aiuta a leggere le scelte stilistiche, sintattiche e grammaticali come indicative della struttura del copione, sino a permetterci di cogliere anche quello che potremmo definire il “non verbale” della scrittura. In un caso, per esempio, improvvisamente un cliente utilizzava, in un racconto in tempo imperfetto, verbi al passato remoto e incalzava il ritmo del racconto ogni volta che compariva il lupo, una parte di lui caratterizzata da grande fretta, ansia di prestazione e difficoltà all’ascolto.

Conclusioni: libertà e destino

Oggi più che mai, per comprendere e, in un certo grado, prevedere i comportamenti di quello che Gottschall nel suo recentissimo Storytelling animal (2012) chiama appunto l’animale narrante, dobbiamo indagare la storia che in segreto guida la sua vita. La narrazione copionale può davvero essere uno strumento fondamentale di crescita e sviluppo personale in quanto restituisce all’autore del copione la responsabilità del proprio destino offrendo infine la possibilità di una correzione. E lo fa usando il mezzo più naturale e coinvolgente per farlo. La narrazione copionale lavora in ultima analisi per il potenziamento della libertà dell’individuo e per ridare all’essere umano la libertà di scegliersi la vita che vuole o che ancora non sa di volere. C’è stato un lungo dibattito in seno all’Analisi Transazionale per decidere se il copione, in quanto costruzione infantile, potesse essere oggetto di lavoro per i counselor. In particolare si obiettava il fatto, sostenuto da alcuni, che l’unico setting adeguato in cui potessero avere luogo modifiche sul copione fosse quello terapeutico (Grégoire, 1998). Tuttavia un punto che già Berne (1972) aveva messo in luce è che modificazioni del copione possono essere causate da esperienze di vita e non solo dalla psicoterapia, per questo anche approcci non psicoterapeutici devono essere considerati un terreno fertile per facilitare i cambiamenti di copione. Non sembra quindi discutibile che

il cambiamento personale profondo, inclusi i cambiamenti di copione, ha certamente luogo in supervisione, formazione, counseling e sviluppo organizzativo, così come nella vita di tutti i giorni (Grégoire, 1998; Cornell, 2013).

La narrazione copionale, e altri strumenti forniti da altri approcci e altre scuole – persino il lavoro con i sogni (Bowater, 2013) – che sono utili a rendere attuale il copione, permettono ai counselor di esplorare questa mappa esistenziale con i loro clienti. Per capire la storia che si sono costruiti per vivere, esplorarne i confini identitari, valutare se apportare modifiche. E, quando quest’ultimo passaggio risulta impossibile senza rivedere decisioni dell’infanzia bloccate nell’inconscio, decidere insieme che una psicoterapia può essere la scelta più utile (Cosso, 2013; 2009). Perché chi siamo e quale sia la nostra possibilità di intervento dipende, in ultima analisi, da come ci raccontiamo a noi stessi e al mondo. Come persone. Ma anche come professionisti.

Ἦθος, ἀνθρώπῳ δαίμων
Il carattere di un uomo è il suo destino
Eraclito, frammento 119

Ego fatum
Sono io il mio destino
F. Nietsche

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Note

1 Della sua rubrica di posta nell’inserto femminile di Repubblica dell’aprile 2013.

2 Merleau-Ponty (1908-1961) è un filosofo francese del Novecento, esponente della fenomenologia.

3 Tutti gli studi più recenti che hanno messo in relazione la linguistica moderna con le neuroscienze hanno portato nuove importanti scoperte sul ruolo del linguaggio nell’evoluzione della nostra specie e sul suo influsso sullo sviluppo psicologico del bambino. Ricordiamo alcuni autori impegnati in studi sulla mente e la coscienza: L. Cavalli Sforza e T. Pievani, M. Tomasello, M. Nowak, E.Boncinelli , A. Damasio, F. De Waal, R. Dunbar, P. Ehrlich, I. Eibl-Eibessfeldt, A. Gehlen, M. Ridley, M.Harris, G.Piccinino e, naturalmente, S.Pinker.

4 La modalità narrativa (…) è il regno delle storie. Ha come scopo la credibilità. (…) Ciascuno di noi ha una storia della propria vita, un’identità narrata. Nel raccontare storie a proposito di noi stessi, noi rendiamo solidi i nostri ricordi e le nostre identità, eliminiamo la frammentazione e creiamo coerenza nel senso che diamo alla nostra vita. Lo scopo (…) è di aiutare l’individuo a ridefinire e vivere la propria storia (traduzione dell’autrice).

5 Noi diventiamo le storie che raccontiamo a noi stessi e che poi crediamo vere. Tali storie creano un mondo che è difeso perché custodisce la nostra identità. La terapia narrativa esternalizza tali storie così che le risorse di autoguarigione contenute nell’anima possano parlarci dei loro desideri trascurati e reintegrarci (traduzione dell’autrice).

6 Per fiaba copionale si intende una fiaba che viene fatta raccontare al cliente con diverse modalità: in alcuni casi si dà un tema (per es, una fiaba con animali), io preferisco chiedere al cliente di scrivermi di suo pugno brevemente la sua fiaba o storia preferita, oppure, se non ne ha, una storia che ama, o ancora di inventarne una. Questa tecnica mi permette di lavorare sull’esplorazione dei contenuti e dei significati che vengono attribuiti, ma anche sulla struttura narrativa e drammaturgica della fiaba, che riproduce di per sé uno schema narrativo ben preciso e che dà importanti indicazioni sulle diverse possibili espressioni di quel copione (Cosso, 2013).

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ROBIN ESCE DALLA FORESTA, UNA FIABA COPIONALE IN UN PERCORSO BREVE

Il caso che segue è uno dei più semplici da riportare, sia per la brevità, sia per il lavoro di narrazione copionale che ha comportato, facilmente riportabile in questa sede. Per la descrizione di altri casi più complessi si rimanda ad altre mie pubblica­zioni.

Questa fiaba è stata raccolta in un setting particolare: ai ragazzi che partecipa­no a un Master in management di una Business school viene offerto un breve percor­so di tre colloqui di counseling per accompagnare la loro evoluzione formativa con quella personale, acquisire consapevolezza, lavorare sulle proprie difficoltà emotive e relazionali. Per la brevità del percorso, durante il primo colloquio offro il mio com­puter al cliente e chiedo di riassumere in poche righe la sua fiaba preferita. Eccone una, con il lavoro di counseling che ne è scaturito.

ROBIN HOOD Al ritorno delle crociate Robin di Locksley ritrova la famiglia ucci­sa, le terre e tutte le ricchezze confiscate dal principe Giovanni, usurpatore fratel­lo di Re Riccardo legittimo Re.

Robin col nome di Robin Hood si unisce ai poveri rifugiatisi nella foresta di Sherwood e combatte re Giovanni rubando ai ricchi per dare ai poveri.

Alla fine Robin trova l’amore, lady Marian, e sconfigge i cattivi.

Happy Ending 🙂

Durante il primo colloquio Giuseppe racconta la sua situazione: la madre è morta di tumore dopo una lunga malattia otto anni prima, da allora il padre si chiude in un distacco totale, la sorella maggiore scompare dedicandosi al fidanzato, sono tutti “come anestetizzati”. Giuseppe si ritrova solo, impossibilitato a condividere il proprio dolore, e si assume il ruolo di care giver di famiglia: si occupa della nonna, fa la spesa per tutti, rincorre i famigliari per ricordare loro i propri doveri.

Colleghiamo il suo racconto con la fiaba condividendo una lettura delle me­tafore: al ritorno dalle crociate della malattia della madre, il padre/Re Riccardo si è trasformato in Giovanni Senza Terra, (“perché ha perso i riferimenti”, si dice Giuseppe mentre dà significato al racconto). La famiglia è distrutta e lui si chiude nella foresta delle sue emozioni e diviene l’unico a tenere alti i valori affettivi della famiglia di pri­ma della tragedia.

È lo stesso Giuseppe a collegare i passaggi della fiaba con il suo modo di gestire le relazioni, anche professionali: tende a fare il “vendicatore” dei più deboli, a battersi con foga contro i soprusi, veri o presunti, che subisce o subiscono gli altri. Esaminia­mo insieme le conseguenza che una trama di questo genere hanno sull’evolvere della narrazione: utilizzando lo schema qui sotto riportato è stato possibile visualizzare l’evoluzione drammatica del racconto e renderla più chiara al cliente.

Che è andato subito al punto: è stato lui stesso a indicare come arrivare a un lieto fine. “Attraverso l’amore per Lady Marian”. Sollecitato sul fatto che quell’ultima scena della storia è stata descritta con una certa laconicità, Giuseppe riflette sulla sua poca propensione alle relazioni intime: anche lui in fondo ha una parte “Principe Giovanni” che ha preso il sopravvento. Decide di sentire la sua ragazza quella sera stessa e provare a condividere con lei il dolore che tiene “chiuso nella foresta” da troppo tempo.

L’incontro successivo, il secondo, esordisce così: “Avevi ragione, ora mi sento come se mi si fosse sciolto un po’ di ghiaccio nel cuore”. Gli faccio notare che sia il dramma che la sua soluzione erano già nella sua storia, io non ho fatto altro che aiu­tarlo a leggere tra le righe. Passiamo il resto del colloquio a declinare la modalità relazionale da lui riacquisita nelle sue tante sfaccettature, per esplorare quante aree della sua vita potranno essere rese più vitali e calde, compreso il rapporto con la famiglia e con i colleghi.

Il terzo colloquio serve poi a valutare insieme le difficoltà e i successi delle nuo­ve sperimentazioni e a consolidare quanto appreso.